di Vincenzo Medde
1. LA MALARIA “MALATTIA NAZIONALE ITALIANA”
Nei decenni che seguirono l’Unità d’Italia la malaria costituiva «il più grave problema di sanità pubblica a livello nazionale» (Snowden, p. 45). Nel 1882 il senatore Luigi Torelli pubblicò la prima carta della diffusione della malaria in Italia, presupposto conoscitivo per quella che nel 1884 chiamava la necessaria «guerra nazionale» per liberare l’Italia dalla «tirannia della malaria».
Carta della malaria in Italia
La carta rendeva evidente che l’intera penisola – sessantasette delle sessantanove province, 3075 degli 8362 comuni, un terzo dell’intera area continentale – era contaminata (il colore rosso segnalava le aree ad altissima intensità, il giallo le aree ad alta intensità di contaminazione). Quasi la metà dei 25 milioni di abitanti erano a rischio costante di contrarre la malattia e almeno 15 000 erano i morti, che aumentavano quando, ogni cinque-dieci anni, la mortalità subiva un’impennata dovuta a variazioni di temperature e precipitazioni.
Questi i sintomi della malaria «[…] picchi intermittenti della temperatura corporea, brividi, sudorazione profusa e violenti attacchi di cefalea, spesso accompagnati da vomito, diarrea e delirio. […] Nei casi più gravi di “malaria perniciosa”, con coinvolgimento di organi vitali, la morte sopraggiungeva rapidamente in seguito a coma, stress respiratorio acuto o anemia profonda. Le donne in gravidanza erano soggette ad aborti spontanei, parti prematuri e gravi emorragie. Nei casi “benigni”, ovvero non letali, il morbo causava menomazioni croniche: splenomegalia (doloroso ingrossamento della milza), deperimento, anemia e faticabilità con rischio di degenerazione in cachessia. […] Nei casi più fortunati, il malato guariva completamente, sebbene successivi episodi di stress potessero provocare ricadute, o predisporlo a patologie opportunistiche, come per esempio infiammazioni catarrali dei polmoni» (Snowden, pp. 11-12).
Le conseguenze, anche sul piano economico, erano disastrose: due milioni di ettari restavano incolti e altri due milioni coltivati in maniera inefficiente. «La malaria è la chiave di tutti i problemi economici del Meridione e delle difficoltà croniche del settore agricolo italiano», secondo uno studio del 1918 del ministero dell’Agricoltura.
La malaria fu anche una delle principali cause che costrinsero i contadini meridionali, per sfuggire al lavoro pericoloso e debilitante nelle piane malariche, a emigrare verso gli Stati Uniti, il Brasile, l’Argentina.
Non era certo un problema recente, visto che, da millenni, gli uomini avevano dovuto convivere con la malaria, scontandone le conseguenze in modo più o meno grave a seconda delle epoche, delle temperature, del controllo del suolo, delle vicende della popolazione e dell’urbanizzazione.
2. LE CONOSCENZE SULLA MALARIA
Qual era la causa della malaria? Quale l’agente responsabile delle febbri intermittenti? Quale la biologia di tale agente? In quale modo operava? Qual era la sua origine? In quale modo ci si infettava?
In effetti, fino al 1880 circa le conoscenze erano limitate o sbagliate. Due le teorie più accreditate in Italia in quel torno di tempo. Secondo la prima, si contraeva il morbo respirando l’aria infetta (mal’aria, aria malsana appunto), avvelenata dai miasmi esalanti da paludi e acque stagnanti e prodotti da materiali organici in decomposizione. Secondo un’altra teoria, chiamata “dottrina tellurica”, le paludi non producevano elementi velenosi chimici ma organici, minutissimi microrganismi che le correnti trasportavano dalle paludi per poi depositarli su terreni anche molto lontani, dove, in fermentazione, rilasciavano fumi venefici; l’agente che produceva la malaria non era nell’aria, ma sul terreno.
La teoria miasmatica, sia nella versione “palustre” che in quella “tellurica”, all’inizio del decennio del 1880 iniziò a rivelarsi inadeguata sul piano del rigore scientifico e comunque incapace di suggerire strategie di prevenzione e di cura efficaci, sicché gli scienziati intrapresero nuove vie di ricerca. «Le teorie miasmatiche non consentivano di studiare un piano di attacco mirato, poiché individuavano tre elementi essenziali quali fattori responsabili della diffusione del morbo, ovvero l’aria, la terra e l’acqua. Pertanto, per intraprendere una campagna efficace contro la malaria si rendeva necessario mettere in atto un monumentale programma di risanamento ambientale. I tre elementi da purificare erano onnipresenti e la natura del veleno rimaneva di fatto un mistero» (Snowden, pp. 38-39).
Il mistero cominciò a diradarsi quando, nel 1878, il medico francese Alphonse Laveran, passando dallo studio dell’ecologia della malaria allo studio degli ammalati, scoprì che sempre il sangue conteneva organismi che si trasformavano in continuazione assumendo forme via via diverse. Le successive ricerche di due scienziati italiani, Ettore Marchiafava ed Angelo Celli, dimostrarono che il parassita multiforme di Laveran era realmente la causa della malaria. Su questa linea di ricerca ottenne risultati decisivi Camillo Golgi: esistevano diversi tipi di plasmodio (come oramai veniva chiamato il parassita), causa di diversi tipi di malaria; a partire da un singolo microrganismo, che si moltiplicava per scissione, i plasmodi innescavano processi di reazione che determinavano i sintomi ben conosciuti; l’intermittenza delle febbri era dovuta al ciclo del parassita, al suo moltiplicarsi nei globuli rossi per riversarsi poi nel sangue.
Zanzara anofele
Nonostante questi successi della ricerca, mancava però un dato cruciale: da dove veniva il parassita? Attraverso quali processi penetrava nel corpo umano? Che il responsabile dell’infezione potesse essere un insetto, la zanzara, era già stato ipotizzato ma senza prove circostanziate e conclusive. Tra ottobre e dicembre 1898 Giovanni Battista Grassi, malariologo romano, insieme con i colleghi Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli, escogitò un esperimento risolutivo: catturò delle zanzare della specie anofele, le nutrì con sangue infetto e il 19 e 20 ottobre 1898 lasciò che le zanzare pungessero un volontario sano; il 1° di novembre la cavia umana mostrava già i sintomi della malaria. Esperimenti analoghi furono messi in opera da Angelo Celli. Dunque, a trasmettere la malaria all’uomo era proprio la zanzara, la femmina della specie anofele che inoculava nell’uomo il parassita denominato Plasmodium falciparum.
La scoperta dell’origine e dei meccanismi di trasmissione della malaria permise anche di comprendere il funzionamento terapeutico del chinino, la cui efficacia in funzione antimalarica era conosciuta dal Seicento. Il suo impiego come profilassi e terapia di massa venne reso possibile dalla vertiginosa diminuzione dei costi tra il 1870 e il 1911, a sua volta determinata dall’estensione delle piantagioni dell’albero di china (dalla cui corteccia si estraeva il principio attivo del farmaco) nell’isola di Giava da parte degli Olandesi.
3. IL CHININO DI STATO CONTRO LA MALARIA
I successi della malariologia e la disponibilità del chinino indussero il Parlamento, tra il 1900 e il 1907, ad approvare una serie di leggi che finanziavano ed organizzavano una grande campagna nazionale volta all’eradicazione della malaria tramite la distribuzione di massa appunto del chinino. «Lo Stato si assunse l’onere di acquistare chinino di qualità garantita sul mercato internazionale, confezionarlo in pasticche e distribuirlo in tutte le zone malariche incluse nel programma. Il farmaco sarebbe stato fornito gratuitamente ai poveri e a tutti coloro che lavoravano all’aria aperta: il chinino, che fino ad allora era stato esclusivo appannaggio dei cittadini più facoltosi, era finalmente alla portata di tutti» (Snowden, p. 61).
Ma la popolazione soggetta all’infezione malarica era soprattutto quella che abitava nelle campagne, nei villaggi, in agglomerati dispersi e quindi difficilmente raggiungibile, considerata anche la scarsa disponibilità, in rapporto al territorio, di medici e personale sanitario. Inoltre, i contadini e i poveri dovevano proprio essere convinti ad assumere il farmaco e secondo piani di assunzione molto precisi, ciò che contrastava con l’ignoranza e la diffidenza assai diffuse a livello popolare.
Assistenti sanitarie distribuiscono il chinino
in una scuola rurale (Majori 2010)
Perciò, la distribuzione del farmaco doveva essere preceduta e accompagnata da una serie di interventi che ne avrebbero reso effettiva ed efficace la disponibilità del chinino: nel primo decennio del Novecento la guerra contro la malaria fu in effetti condotta in stretta collaborazione da Stato, comuni, medici, studenti di medicina, insegnanti, volontari, impegnati non solo a distribuire il farmaco ma anche e contemporaneamente in un’opera di educazione, formazione, convincimento dei contadini analfabeti per rendere possibile i piani cronologici di assunzione del farmaco, pena la sua inefficacia. Vennero quindi organizzati stazioni sanitarie rurali, sanatori per l’infanzia, scuole itineranti, presidi mobili in grado di individuare e seguire i malati nei villaggi, nei casolari, nelle campagne più impervie.
I risultati della grande campagna antimalarica furono molto positivi: se nel 1900 i morti per malaria erano stati 15 865 (490 per milione di abitanti), nel 1914 i morti furono “solo” 2045 (57 per milione di abitanti).
Contribuirono a questi buoni risultati, oltre al chinino, anche altri fattori: le bonifiche delle aree paludose, l’industrializzazione, la meccanizzazione dell’agricoltura, la messa a coltura di aree incolte, miglioramenti del regime alimentare e delle condizioni igieniche, la sindacalizzazione e l’organizzazione politica dei contadini. Giocò un ruolo importante lo stesso fenomeno dell’emigrazione, che determinò un radicale mutamento nel mercato del lavoro provocando la diminuzione della manodopera disponibile e dunque una maggior forza contrattuale dei contadini che, così, potevano reclamare migliori salari, migliore alimentazione, migliori condizioni di abitabilità e dunque un allentamento delle condizioni che favorivano l’insorgere e il permanere endemico della malaria.
Purtroppo, come ulteriori indagini e statistiche ebbero modo di dimostrare, la situazione generale permaneva assai grave. In primo luogo, perché i progressi maggiori vennero registrati nel Nord e nel Centro; infatti nel 1924 fra le diciassette province dichiarate immuni da malaria neppure una apparteneva al Meridione. In secondo luogo, perché, anche se i morti da malaria erano fortemente diminuiti, ci si ammalava come e quanto in precedenza; e il morbo continuava a provocare l’insorgere di altre patologie (tubercolosi, influenza, polmonite), complicanze, recidive e una debilitazione cronica che se non portava alla morte implicava conseguenze deleterie, come denunciava il medico provinciale di Girgenti nel 1924: «La malaria fiacca la resistenza al lavoro e alle fatiche, logora le energie … rallenta lo sviluppo agricolo e industriale, si ripercuote su tutta l’economia sociale» (cit. in Snowden, p. 124).
4. LA GUERRA CONTRO GLI AUSTRIACI È PIÙ IMPORTANTE DELLA GUERRA CONTRO LA MALARIA
Pur con questi limiti, il quindicennio dell’età giolittiana, 1900-1915, fu un’epoca di straordinari progressi per la ricerca e per la diminuzione del tasso di mortalità per malaria in tutto il Paese. L’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915 arrestò del tutto questa tendenza positiva: alla lotta alla malaria vennero sottratti finanziamenti, ricercatori, medici, insegnanti, volontari, perché tutte le risorse vennero ingoiate nello sforzo bellico, che, dopo le illusioni iniziali, si doveva rivelare di lunga durata. Così, se nel 1914 i morti per malaria furono 57 per milione di abitanti, nel 1915 erano già 105, 237 nel 1917, 325 nel 1918. Ma, di nuovo, l’imperversare della malaria colpiva più al Sud che nel resto della penisola: nel Meridione, infatti, i morti per malaria per milione di abitanti furono 523 nel 1917 e 718 nel 1918. Si deve poi tener conto del fatto che le statistiche riportano il numero di decessi provocati direttamente dalla malaria; se si aggiungono i decessi provocati indirettamente, si arriva a stimare che nel 1918 la malaria provocò direttamente o indirettamente 60 mila morti. Nella provincia di Sassari i morti ogni 1000 abitanti furono 5,9 nel 1914, 15,2 nel 1917, 19,3 nel 1918.
5. LA LOTTA CONTRO LA MALARIA DURANTE IL FASCISMO PER FAR RIFIORIRE «LA BELLA E IMMORTALE GIOVINEZZA DELLA RAZZA ITALICA»
La lotta alla malaria tramite le “bonifiche integrali” diventò con la Legge Mussolini del 1928 uno degli aspetti centrali della politica fascista, alla base della quale vi era la convinzione che le conoscenze scientifiche acquisite, se applicate con determinazione, consentivano di sconfiggere definitivamente il morbo. La strategia di attacco prevedeva di integrare l’uso sistematico del chinino con tre forme di bonifica: idraulica (drenaggio delle paludi, controllo dei flussi d’acqua, riempimento di fossati e depressioni), agraria (ripopolamento del territorio e incentivazione delle coltivazioni intensive e dell’allevamento moderno), igienica (difesa dei nuovi abitanti dal morbo tramite la costruzione di alloggi solidi, schermati, ben illuminati e con pareti imbiancate per evitare la penetrazione delle zanzare e facilitare la loro eliminazione).
Come area di sperimentazione della nuova strategia integrata venne scelto l’Agro Pontino, una zona a sud di Roma, desolata, infestata dalle zanzare e praticamente disabitata. La bonifica integrale (idraulica, agraria, igienica) ebbe inizio nel novembre 1928 e fu terminata dieci anni dopo, nel dicembre 1939. Si trattò di un’impresa immane nella quale furono impiegati fino a 120 000 lavoratori. Vennero costruiti 16 500 chilometri di canali di drenaggio, 743 chilometri di strade pubbliche, 416 chilometri di vie di accesso alle proprietà, vennero posti 640 chilometri di cavi dell’alta tensione e 1080 chilometri di cavi telefonici, vennero piantati 1,6 milioni di pini frangivento, vennero edificate cinque nuove città (Littoria, Pomezia, Aprilia, Sabaudia, Pontinia) e diciotto borgate. Il territorio così bonificato e liberato dalle zanzare venne suddiviso in appezzamenti ampi dai quattro ai cinquanta ettari, dotati di un edificio a due piani, una stalla, un fienile, un pozzo e una vigna, che vennero assegnati a 60 mila coloni, di origine veneta per lo più, cui venne data la possibilità di riscattare la terra con una serie di rate annuali.
La bonifica integrale poteva valere qualsiasi sacrificio; le diecine di migliaia di lavoratori che prosciugarono le paludi, dissodarono e livellarono il terreno, scavarono canali, costruirono strade, ponti e case – reclutati tra i disoccupati di tutta la penisola, senza protezione sindacale né rappresentanza politica –, furono impiegati in un’area tra le più malariche, alloggiati in edifici senza protezione, privi di un’adeguata assistenza sanitaria, per un salario bassissimo, sottoposti alle angherie dei caporali reclutatori. Ma per i dirigenti fascisti era scontato che «chi va in bonifica può anche cadere come il soldato che va alla battaglia» (Edmondo Rossoni, ministro dell’Agricoltura e foreste, cit. in Snowden, p. 216).
Era inoltre assai singolare che un tale sforzo organizzativo e finanziario fosse destinato ad un’area quasi disabitata, piuttosto che alle zone più popolate e più colpite dalla malaria.
Il fatto è che il risanamento delle Paludi Pontine e il loro ripopolamento e colonizzazione doveva esser il primo di una serie (ma, in effetti, non ebbe seguito perché gli obiettivi bellici e imperialisti del fascismo dirottarono le risorse in altra direzione) in cui la lotta alla malaria era un obiettivo parziale all’interno di un più vasto progetto di ingegneria biologica e sociale. Eliminare la malaria, nella strategia fascista e razzista, avrebbe significato combattere i pericoli di degenerazione razziale causati dal paludismo e creare le condizioni ottimali per allevare, attraverso l’emigrazione interna guidata e l’incrocio dei sangui, una grande razza italiana capace di fondare un nuovo impero. Insomma bonificare la terra per bonificare la razza.
A tanto sforzo organizzativo e finanziario si accompagnò però il declino della scuola italiana di malariologia e della ricerca sulla malaria, perché le autorità politiche e scientifiche fasciste ritenevano che fosse più urgente estendere l’applicazione delle conoscenze che non ampliare le conoscenze stesse. Così gli scienziati dell’americana Fondazione Rockefeller, disponibile a finanziare interventi antimalarici e istituti di ricerca, all’inizio degli anni Trenta, si espressero in termini assai critici sulla capacità delle autorità italiane di guidare una campagna antimalarica nazionale e sull’adeguatezza dei finanziamenti alle università e alle strutture di ricerca.
La svolta imperialista prima, e poi, nel 1940, l’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania comportarono da un lato un forte indebolimento della lotta alla malaria, dall’altro una recrudescenza del morbo tra il 1941 e il 1945. Ciò accadde anche nell’Agro Pontino bonificato, dove era stata interrotta la profilassi a base di chinino, perché il farmaco non era più disponibile e perché mancava il personale medico e infermieristico addetto alla somministrazione. Inoltre, la situazione era aggravata dall’interruzione dei lavori di drenaggio per mancanza di manodopera.1
6. 1944, I TEDESCHI IN FUGA ARRUOLANO ANCHE LE ZANZARE
La situazione nell’Agro Pontino divenne drammatica a partire dalla primavera del 1944, quando i Tedeschi, di fronte all’incalzare degli Alleati, decisero di mettere in atto un piano di guerra biologica sia per ritardare l’avanzata degli Anglo-Americani, sia per vendicarsi degli Italiani che dall’8 settembre del 1943 da alleati erano diventati nemici. Il piano, ideato dai malariologi tedeschi Erich Martini e Ernst Rodenwaldt, prevedeva di allagare il territorio bloccando le macchine che prosciugavano la pianura e di invertire le pompe idrovore, di modo che invece di pompare acqua in mare, pompassero acqua marina verso la pianura. Questo avrebbe permesso il formarsi di vasti acquitrini salmastri, ambiente ideale di proliferazione di una specie pericolosissima di zanzara, l’Anopheles labranchiae, in grado di innescare in poco tempo una micidiale epidemia di malaria. L’acqua marina, inoltre, avrebbe contribuito a rovinare sia l’agricoltura che l’allevamento. Per garantirsi che la diffusione dell’epidemia non potesse essere contrastata, i Tedeschi distrussero i barconi speciali utilizzati per tenere sgombri i canali di drenaggio e si impadronirono di nove tonnellate di chinino disponibili nei magazzini romani.
Il piano tedesco, di fatto, non ostacolò l’avanzata degli Alleati, che arrivarono a Roma il 4 giugno 1944, mentre ebbe conseguenze pesantissime sulla popolazione dell’Agro Pontino che fu travolta da un’ondata epidemica senza precedenti: nel 1944 gli infettati furono più di 100 mila su una popolazione di 245 mila abitanti e tra il 1944 e il 1946 i casi di infezione superarono di dieci volte quelli registrati nel 1939 e nel 1940.
7. LA SCONFITTA DELLA MALARIA
Con l’arrivo a Roma degli Alleati e poi con la definitiva sconfitta dei Tedeschi ripartì nell’Agro Pontino e successivamente su tutto il territorio nazionale la macchina antimalarica che si era rodata in campagne nazionali e locali fin dai tempi di Grassi e Celli: distribuzione del chinino, ripristino delle stazioni sanitarie, ripristino delle protezioni meccaniche, risanamento di fossi e canali, riattivazione delle pompe idrovore, ritorno sul territorio di medici e infermieri. L’intervento finanziario degli Alleati permise di rimettere in moto la produzione, ricostruire strade, ponti, case. Migliorò a questo modo anche il regime alimentare e con questo la possibilità di meglio difendersi dalla malaria.
La macchina antimalarica si giovò poi di un potentissimo insetticida, il DDT, con il quale gli Americani, l’UNRRA e la Fondazione Rockefeller, tramite aerei da guerra modificati, irrorarono vaste zone paludose, comprese quelle allagate dai Tedeschi. Il DDT si rivelò di una efficacia straordinaria, tanto che alcuni gli attribuirono il merito esclusivo della vittoria sulla malaria. In effetti, secondo Snowden, la vittoria spetta al “metodo ecclettico” che puntava ad attaccare il morbo su più fronti e con tutte le armi disponibili.
In ogni caso, il DDT e una serie articolata di iniziative ad ampio spettro sulle aree a rischio consentirono dopo venti anni dalla fine della guerra di affermare che in Italia la malaria era stata sconfitta su tutto il territorio: in Italia non vi era più alcuna zona malarica, gli ultimi due casi furono registrati nella Provincia di Palermo nel 1962 e nel 1965 si poté finalmente affermare che la malaria non era più una “malattia nazionale”.
NOTE
1 Frank M. Snowden, storico americano autore della storia della malaria in Italia che qui si utilizza, è molto critico nei confronti del governo fascista, ma qua e là vi sono riconoscimenti alla continuità e all’efficacia della lotta alla malaria anche durante il ventennio, ad esempio: «Il CPA [Comitato Provinciale Antimalarico] sfruttò appieno i progressi raggiunti in campo istituzionale e culturale attraverso la campagna antimalarica lanciata nel 1900 e proseguita quasi senza soluzione di continuità fino alla metà del secolo»; all’indomani della seconda guerra mondiale, il successo contro la malaria nell’Agro Pontino fu dovuto anche al fatto che «Senza dichiarazioni formali, si era attuata l’essenza del “metodo ecclettico” studiato dalla Direzione generale della Sanità Pubblica negli anni Venti che puntava ad attaccare la malaria su più fronti e con tutte le armi disponibili» (Snowden, pp. 279, 281).
BIBLIOGRAFIA
- Frank M. Snowden, La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana 1900-1962, Einaudi, Torino 2008.
- Giancarlo Majori, Il Laboratorio di Malariologia e l’eradicazione della malaria in Italia, in «I beni storico-scientifici dell’Istituto Superiore di Sanità, Quaderno n. 5, 2010».
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II - Uomini, terre e malaria in Sardegna dal Settecento al Fascismo
III - Venivano dal mare, ma non per rubare… L’eradicazione della malaria in Sardegna 1946-1950