di Vincenzo Medde
«Penso con orrore e vergogna a quell'Europa divisa in due parti dalla linea del Bug, su un lato del quale milioni di schiavi sovietici pregavano di essere liberati dalle armate di Hitler, e sull'altro milioni di vittime dei campi di concentramento tedeschi aspettavano la liberazione dall’Armata rossa come la loro ultima speranza».
Gustaw Herling, Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 2007, p. 198.
***
Questo articolo è un invito a leggere i libri e i saggi dello storico americano Timothy Snyder e, anche se tiene conto di altri scritti, in particolare di Terre di sangue e Terra nera, è basato sul saggio Commemorative Causality, che affronta sinteticamente diverse tematiche sviluppate in altre più ampie ricerche.
Le tesi di Snyder, soprattutto quelle presentate nel libro Terre di sangue, pubblicato nel 2010, hanno provocato un vasto e acceso dibattito nelle università, nelle riviste specializzate, sulla stampa periodica negli Stati Uniti e in Europa, mentre in Italia non sembrano aver avuto spazio di rilievo (Tra i pochi riscontri in italiano si veda Antonio Ferrara, Un libro e un dibattito: riflessioni su Terre di sangue di Timothy Snyder, «Storica», n. 54, 2012).
La lista completa dei libri, dei saggi, degli articoli di Snyder è disponibile nella sezione a lui dedicata sul sito della Yale University. Una nutrita biblio-sitografia è reperibile nel volume di Helen Roche An Analysis of Timothy Snyder's Bloodlands, Macat Library, 2017.1. Il paradigma coloniale
Il paradigma coloniale (the colonial epistemic) orienta la ricerca storica tramite due componenti fondamentali: 1) le fonti prevalenti per descrivere paesi e popoli colonizzati sono quelle disponibili nei paesi e nella lingua dei colonizzatori; 2) l’atteggiamento nei confronti dei paesi e dei popoli colonizzati è sostanzialmente, seppure sottilmente sfumato e dissimulato, di sottovalutazione e di dislocazione su un piano di inferiorità o di “barbarie” rispetto ai paesi colonizzatori, che sono percepiti e rappresentati come essenzialmente “civili”.
Si tratta di un paradigma datato e raramente reperibile oggi nella storiografia relativa ai paesi una volta colonie, ma, questa la tesi di Snyder, ancora operante nella storiografia dell’Olocausto. Prima di vedere in quale modo, è necessario mettere in evidenza alcuni dati.
- La gran parte degli Ebrei fu sterminata dai Nazisti in un’area comprendente la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, le Terre di sangue, che costituisce il titolo del libro più noto e più discusso di Snyder.
- Questi paesi furono ripetutamente invasi e assoggettati con le armi e il terrore per tre volte: dai Tedeschi e dai Sovietici nel 1939, dai Tedeschi nel 1941, dai Sovietici nel 1944.
- In quest’area Tedeschi e Sovietici tra il 1933 e il 1945 uccisero 14 milioni di persone non combattenti, Ebrei e non Ebrei (si veda la tabella in appendice).
- In queste terre Tedeschi e Sovietici distrussero gli Stati esistenti e deportarono o uccisero le élites per impedirne una futura ricostituzione.
- Otto milioni di non-Ebrei furono uccisi con Hitler al potere nelle terre dove fu consumato l’Olocausto, prima o durante lo sterminio degli Ebrei.
- Nell’agosto 1944 l’Armata Rossa si arrestò sulla Vistola, non lontano da Varsavia, lasciando che i Tedeschi abbattessero la rivolta di Varsavia e dando loro il tempo di deportare da Lodz ad Auschwitz i 67.000 Ebrei sopravvissuti.
- Dei 5 milioni e 700mila Ebrei uccisi, circa 3 milioni erano cittadini polacchi e un altro milione circa cittadini sovietici, che, insieme, rappresentano il 70% del totale. Dopo gli Ebrei polacchi e sovietici, i gruppi più numerosi tra gli Ebrei uccisi furono gli Ebrei rumeni, ungheresi e cecoslovacchi.
- Gli Ebrei che abitavano nell’Europa dell’Est erano dieci volte più numerosi di quelli che abitavano in Germania. Gli Ebrei uccisi nell’Olocausto nelle terre orientali venti volte più numerosi di quelli uccisi in Germania.
- Il 97% delle vittime dell’Olocausto non parlavano tedesco ed erano cittadini in gran parte polacchi e sovietici.
Se questi elementi e queste cifre della distribuzione geografica dello sterminio degli Ebrei venissero tenute nella dovuta considerazione, il carattere europeo-orientale dell’Olocausto risulterebbe immediatamente evidente.
Ma gran parte degli storici dell’Olocausto per ricostruire caratteristiche, dimensione, procedure, logica dello sterminio degli Ebrei si è servita e continua a servirsi di fonti esclusivamente tedesche e in tedesco e a collocare quasi interamente all’interno della storia e della cultura tedesche quelle tragiche vicende. Nelle storie dell’Olocausto ogni cosa sembra accadere in Germania.
Afferma Snyder: «C’è un problema di fondo con la storia dell’Olocausto. Gli studiosi che la scrivono non conoscono le lingue necessarie». Così, i grandi libri sull’Olocausto sono in buona sostanza libri sulla Germania. Certo, vi sono delle eccezioni, come ad esempio Christoph Dieckmann, il quale sulla base della sua conoscenza del lituano, del polacco, del yiddish, dell’ebraico ha scritto un libro di 2500 pagine sull’Olocausto in Lituania, ed è solo il primo volume!
Tale restrizione, territoriale e documentale, è certo conseguenza del fatto che le lingue della maggior parte degli Ebrei uccisi non vengono studiate e utilizzate, tant’è che molti importanti storici dell’Olocausto, neppure dopo il 1989, hanno sentito il bisogno di imparare le lingue dei paesi dove l’Olocausto è avvenuto, nonostante la consistenza e l’importanza delle fonti disponibili in tali terre.
«È interessante notare che gli studiosi che più contribuirono all'avvio degli studi sull’Olocausto non usavano le lingue dell'Europa orientale, compreso lo yiddish. I genitori di Hilberg parlavano polacco, ma lui no. Friedländer viene da Praga, ma non usa il ceco. Nessuno dei più illustri storici dell'Olocausto ha studiato una lingua dell'Europa orientale dopo il 1989, benché sia venuto alla luce un vasto corpus di fonti e siano emerse nuove letterature secondarie» (Snyder, Terra nera: 451, nota n. 1).
Addirittura, molte sintesi storiche in inglese riportano in modo scorretto i nomi delle località, situazione equivalente ad eventuali storie della Rivoluzione di Cromwell che riportassero in modo errato i nomi delle città inglesi. Una nuova generazione di storici polacchi ha prodotto una mole considerevole di nuove opere sull’Olocausto, ma quasi del tutto ignote, dato che pochi storici in Germania, in Israele, negli Stati Uniti conoscono le lingue parlate nel paese, la Polonia, dove fu ucciso il maggior numero di Ebrei.
Ma, la restrizione di cui sopra è anche l’esito del convincimento che il meccanismo di distruzione degli Ebrei dell’Europa dell’Est sia interamente comprensibile e spiegabile all’interno della storia culturale, istituzionale, politica della Germania.
Le Terre di sangue. In quest’area Sovietici e Tedeschi tra il 1933 e il 1945 uccisero 14 milioni di persone non combattenti, Ebrei e non Ebrei.
È in questa maniera che si manifesta il paradigma coloniale: i Tedeschi hanno assoggettato i paesi dell’Est europeo, ma per studiare tale assoggettamento e le sue conseguenze non è necessario conoscere le lingue di quei paesi, né studiarne la storia, né ascoltare le voci che ne provengono, né riproporne il punto di vista. Le fonti reperibili nel paese colonizzatore sono sufficienti. Si tratta, a ben vedere, della sopravvalutazione coloniale della cultura del paese dominante e della corrispondente sottovalutazione della cultura dei paesi dominati: anche qui, “civiltà” contro “barbarie”.
Così, la società tedesca, considerata soggetto complesso, merita studi articolati e sofisticati, mentre le vicine società dell’Est vengono ancora descritte tramite tradizionali e approssimativi stereotipi.
Ed è molto significativo che il paradigma coloniale venga utilizzato per la ricostruzione dei rapporti della Germania nazista con l’Est, ma non per i rapporti, ad esempio, con la Francia di Vichy; quest’ultimo caso è stato infatti studiato utilizzando fonti tedesche e fonti francesi, cioè fonti locali, cosa che non è accaduta invece per la Polonia occupata dai Tedeschi.
Gli studi che hanno come oggetto la vita e la cultura degli Ebrei tedeschi, non sono in grado di superare il paradigma coloniale, anzi lo confermano, in quanto quegli Ebrei (Westjuden), pur avendo condiviso la sorte degli Ebrei orientali (Ostjuden), costituivano una minoranza integrata nella società e nella cultura tedesca, a cui avevano anche dato un sostanziale contributo, arrivando spesso a identificarvisi e a condividerne la missione; gli Ebrei tedeschi non possono, perciò, in alcun modo essere considerati rappresentativi degli Ebrei polacchi, sovietici, romeni, che neppure conoscevano il tedesco, essendo la loro lingua materna il yiddish o il polacco o il russo. Una narrazione basata sull’esperienza degli Ebrei tedeschi necessariamente trascura tutta una serie di cause e di elementi cruciali.
Tutto questo equivale a mettere in evidenza che lo studio degli Ebrei tedeschi e delle testimonianze degli Ebrei occidentali non possono in alcun modo surrogare lo studio degli Ebrei dell’Est europeo, delle loro comunità, delle loro culture, delle loro lingue, se non altro perché il maggior numero delle vittime dell’Olocausto aveva fatto parte di quelle comunità di Ostjuden. Ed ecco anche perché se le fonti tedesche sono indispensabili, altrettanto lo sono le fonti locali.
2. L’antisemitismo è condizione necessaria ma non sufficiente per spiegare l’Olocausto
All’interno di tale paradigma trova posto e spiegazione lo studio dell’antisemitismo come causa unica o principale dell’Olocausto. Indubbiamente, senza l’antisemitismo lo sterminio di massa degli Ebrei non avrebbe avuto luogo; ma, se l’antisemitismo è una condizione necessaria, non è però sufficiente. Era infatti presente in Germania ben prima del 1939, senza causare uccisioni di massa, ed era presente in molti altri paesi europei, ad esempio in Russia e poi in Unione Sovietica, dove negli anni Trenta vennero uccisi quasi cento Ebrei per ogni Ebreo ucciso nella Germania nazista nello stesso periodo.
In funzione causale, all’antisemitismo tedesco viene associato l’antisemitismo delle popolazioni dell’Est; ma, mentre il primo è stato ampiamente studiato e ricostruito all’interno della cultura e della politica tedesca, il secondo viene evocato senza però approfondirlo, senza ricostruirne la storia e le connessioni con la storia e i valori di quelle popolazioni. Così, mentre l’antisemitismo tedesco viene rappresentato come l’abisso in cui è caduta una civiltà, l’antisemitismo orientale pare essere fenomeno astorico, semplicemente inerente al comportamento collettivo di coloro che lo hanno praticato.
Neppure l’antisemitismo orientale può essere visto come causa isolata e cruciale dell’Olocausto; i sentimenti antiebraici erano largamente diffusi in Polonia, come in Russia, in Ucraina, nei paesi baltici; ma, come in Germania non c’è stato Olocausto tra il 1933 e il 1939, altrettanto, nell’Est europeo non c’è stato Olocausto durante il mezzo millennio durante il quale quelle terre sono state abitate dagli Ebrei. L’Olocausto è stato infatti una violenza catastrofica per cui in una settimana qualsiasi del 1941 e 1942 sono stati uccisi più Ebrei che in tutti i pogrom messi insieme. Rispetto alla tradizionale violenza antiebraica, l’Olocausto è stato un complesso di eventi di un’altra dimensione che richiede spiegazioni più complesse che integrino l’antisemitismo tedesco e orientale in un sistema di cause storicamente e socialmente più comprensivo.
In ogni caso, l’antisemitismo locale nei paesi est-europei non può essere studiato e compreso sulla base delle sole fonti tedesche, perché la sua rilevanza è legata a potenti eventi esterni – la doppia occupazione, tedesca e sovietica –, che hanno determinato drastici sconvolgimenti militari, economici, sociali e politici, che devono essere considerati e studiati con lo stesso approfondimento riservato alla Germania nazista o alla Francia occupata.
3. Storia e commemorazione
L’antisemitismo come spiegazione unica dell’Olocausto non può soddisfare le esigenze della ricerca storica, che esige invece un complesso integrato di cause; soddisfa invece la commemorazione, che per essere rappresentata ha bisogno non di spiegazioni ma di immagini delle vittime esteticamente spendibili. D’altra parte, la nostra è un’età in cui la memoria appare più importante e più a portata di mano della storia.
La commemorazione è come il canto della sirena che seduce attizzando le emozioni per essere poi fatale al pensiero.
I Nazisti nei campi di prigionia uccisero per fame tre milioni di soldati sovietici. Chi li commemora? Nessuno, perché, appartenenti alle diverse nazionalità che componevano l’impero sovietico, non appartengono oggi a nessuna comunità di commemorazione e, non commemorati, non vengono neppure ricordati nelle sintesi dell’Olocausto, quando la loro vicenda risulta invece essenziale per comprendere l’Olocausto stesso. La loro tragedia infatti ci costringe a prendere in considerazione i piani nazisti di colonizzazione dell’Est europeo che prevedevano la creazione di un impero razziale da attuare affamando a morte diecine di milioni di persone.
Le pratiche commemorative non solo separano l’ideologia e le emozioni dalla storia, ma limitano l’ideologia a ciò che può essere rappresentato in forme non testuali, a ciò che può essere estetizzato. Senza una piena comprensione del passato e delle nostre attuali rivendicazioni ideologiche non abbiamo alcuna possibilità di comprendere l’antisemitismo e il suo ruolo. Appiattire la ricerca storica sulle pratiche commemorative contemporanee non è di nessuna utilità.
François Furet ha messo in guardia contro i pericoli della “storia commemorativa”, nel caso dell’Olocausto il rischio è quello di una “causalità commemorativa”, per cui ciò che oggi viene commemorato con più efficacia e maggiore frequenza diventa ciò che più facilmente può essere presentato come causa, con il rischio di ridurre la storia a mero riflesso delle emozioni contemporanee.
Gerusalemme. Il pavimento della Sala della Memoria del Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah.
I paesi nei quali ebbe luogo l’uccisione della stragrande maggioranza degli Ebrei, dopo il 1945 si ritrovarono all’interno della Cortina di ferro e con gli archivi inaccessibili. Gli eventi del 1989 e la conseguente progressiva disponibilità dei documenti avrebbero potuto essere l’occasione della vita per gli studiosi, ma durante due decenni la storiografia dell’Olocausto ha seguito il più ampio movimento della storiografia occidentale che privilegiava la storia visuale e commemorativa. Così l’esperienza dell’Olocausto, in massima parte dislocato nell’Est europeo, è stata trascurata a vantaggio della sua rappresentazione in funzione di emozioni e interessi contemporanei.
4. La disputa tra “occidentali” e “orientali”
Il “paradigma coloniale” e la “causalità commemorativa” hanno contribuito a dislocare – sulla stampa, su Internet, nel Parlamento Europeo – su due fronti gli “occidentali” e gli “orientali”: i primi mettono in evidenza la singolarità dell’Olocausto, i secondi i crimini di Stalin. Gli occidentali privilegiano lo studio della “civiltà” tedesca, del suo declino e della sua caduta, non considerando che a est di Berlino vi erano altre “civiltà”, che si esprimevano, poniamo, in polacco, lituano, yiddish. Perciò, mentre si accorda grande interesse alla distruzione dello stato di diritto in Germania negli anni Trenta, viene del tutto trascurata la distruzione degli Stati nell’Est europeo – Polonia, Lituania, Lettonia – da parte di Sovietici e Nazisti.
Praga. Monumento che commemora le vittime del comunismo in Cecoslovacchia nel periodo fra il 1948 e il 1989
Per molti “occidentali”, in effetti, a est di Berlino vi era un’altra “civiltà”, l’Unione Sovietica, la quale, nonostante i molti difetti, veniva rappresentata come un paese sotto attacco, che salvando sé stesso salvava l’umanità. L’immagine cruciale di questa missione redentiva è quella della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, oramai un tropo alquanto problematico. Infatti, perché è stato Auschwitz ad assumere questa funzione rappresentativa, invece di altri campi di sterminio come Treblinka, Belzec, Sobibor, ancora più a est e pure liberati dai Sovietici, e dove il numero delle vittime era stato ancora maggiore? Forse perché le altre fabbriche di morte, non essendovi più vittime da liberare, non potevano avere la risonanza fisica di Auschwitz, lager del quale si conoscevano alcune vittime di origine occidentale, e dunque agli “occidentali” più vicine e familiari?
Forse Auschwitz è diventato così significativo perché, assunto a rappresentare il fallimento di una civiltà, incarna ad un tempo il male e il moderno; mentre la liberazione ad opera di soldati sovietici, come attesa dagli Ebrei quale unica chance di sopravvivenza, allude a una forza, i cui valori si contrappongono a quel male, recuperando a questo modo la possibilità di una civiltà diversa da quella catastroficamente conclusa.
Non si deve dimenticare ciò che è stato il potere sovietico prima della liberazione di Auschwitz. La rappresentazione con al centro Auschwitz liberata dall’Armata Rossa può diventare prevalente quando non esclusiva solo a condizione di ignorare ciò che è stato il potere sovietico prima della liberazione di Auschwitz. L’Olocausto ha avuto luogo in terre occupate a lungo dai Sovietici, i quali, a loro volta, in quelle stesse terre, avevano ucciso circa quattro milioni di persone. Molti dei non Tedeschi carnefici degli Ebrei e guardie nei campi di sterminio erano cittadini sovietici. Auschwitz, simbolo del male, della modernità e della liberazione era una città polacca ceduta ai Nazisti dai Sovietici con il patto del 1939. La spartizione della Polonia e la distruzione dello Stato polacco, portata a termine parallelamente da Tedeschi e Sovietici, fecero aumentare la popolazione ebraica sotto il controllo nazista da poche centinaia di migliaia a oltre due milioni. Quando Hitler, agli inizi del 1940, propose di deportare in Unione Sovietica, allora alleata della Germania, due milioni di Ebrei polacchi, Stalin rifiutò categoricamente. L’Armata Rossa, che aveva raggiunto la Vistola nell’agosto 1944, restò a guardare la brutale repressione della rivolta di Varsavia ad opera dei Nazisti, i quali ebbero anche il tempo di deportare 67.000 Ebrei sopravvissuti da Lodz ad Auschwitz.
Il punto che qui si vuole mettere in evidenza è che queste vicende del potere sovietico prima del 27 gennaio 1945 non trovano posto nelle storie dell’Olocausto perché stridono con il racconto della liberazione di Auschwitz come emozionante ritorno alla civiltà.
Il concetto chiave degli “orientali” è sovranità nazionale, in base al quale enfatizzano fino a sovrastimarli i crimini dei Nazisti e dei Sovietici associati alla distruzione degli Stati e delle élites nei paesi dell’est, che invece gli “occidentali” tendono a ignorare. E proprio perché sono stati i Sovietici i maggiori responsabili di tale distruzione dopo 1917, tra il 1939 e il 1941, dopo il 1945, non possono in alcun modo accettare che l’Urss venga vista come redentrice della civiltà. Tanto più che mentre gli “occidentali” (a parte i più anziani) non hanno alcuna esperienza della tirannia, al contrario gli “orientali” hanno vissuto e sopportato la lunga dittatura del comunismo.
Gli “orientali” ritengono che la storia debba studiare le atrocità sia Hitler che di Stalin, mentre il tabù della comparabilità tra nazismo e comunismo ha poco senso per coloro le cui famiglie sono state distrutte sia dai Sovietici che dai Nazisti. Anche se gli “occidentali” si aspettano che gli “orientali” accettino la corrente storiografia dell’Olocausto con tutti i suoi problemi, limiti e tabù.
5. Genocidio e unicità dell’Olocausto
“Occidentali” e “orientali”, sebbene collocati su fronti contrapposti, condividono alcuni elementi; ad esempio, l’uso del termine genocidio. A coniare il termine fu l’ebreo polacco Rafal Lemkin nel 1943, riuscendo anche nell’impresa di inserirlo in una norma internazionale quando fu adottato dalle Nazioni Unite nel 1948.
Gli “occidentali” ritengono che il termine convenga unicamente all’Olocausto, ma lo stesso Lemkin considerava un caso classico di genocidio lo sterminio per fame organizzato da Stalin nel 1932-33 in Ucraina. Inoltre, sulla base della definizione legale, non si può evitare di considerare come genocidaria l’”Operazione polacca” del 1937-38: i padri polacchi vennero uccisi, le madri deportate nel Kazakhstan, i bambini chiusi in orfanotrofi dove avrebbero dovuto dimenticare la loro identità polacca. Durante la seconda guerra mondiale i Sovietici deportarono interi popoli dal Caucaso e dalla Crimea, bruciando i villaggi e uccidendo chi non poteva muoversi. Questo non significa affermare che tali eventi siano equivalenti all’Olocausto, ma che possono essere ricompresi nella definizione legale di genocidio (Timothy Snyder, The fatal fact of Soviet-Nazi pact, «The Guardian», 5 Oct. 2010).
D’altra parte, la richiesta degli “occidentali” di considerare genocidio solo l’Olocausto non fa che sollecitare gli “orientali” a battersi affinché anche gli stermini di Stalin nell’est europeo e in Ucraina vengano riconosciuti come genocidi. In ogni caso, gli uni e gli altri sono d’accordo che non bisogna rinunciare all’uso del termine. Snyder, invece, preferisce utilizzare la locuzione “stermini di massa” invece di genocidio, perché quest’ultimo termine è limitato dal punto di vista dell’interpretazione storica e morale e dà luogo a inevitabili e irrisolvibili controversie. Snyder è dell’opinione che, sulla base della definizione legale, sia i Sovietici che i Nazisti hanno compiuto dei genocidi, ma che dal punto di vista della ricerca l’uso del termine induce gli storici più ad esercizi legalistici di classificazione che alla ricerca di spiegazioni (Terre di sangue: 466). Non bisogna poi tacere che la discussione sul numero dei genocidi – uno, due, più di due – è più politica che storica e probabilmente viene portata avanti o per ignoranza o per malafede o per entrambe.
Dal 1989 gli “occidentali” hanno involontariamente aiutato gli “orientali” a costruire storie parallele di olocausti, fornendo loro, ad esempio con The United States Holocaust Memorial Museum e Yad Vashem, il modello delle strutture, le tecniche di comunicazione, i rituali della memoria che hanno trovato terreno fertile in tutti i paesi dell’Est europeo, dove sono nati molti musei, cospicuamente finanziati ed esemplati proprio sui due citati.
Il fatto è che i rituali della commemorazione, quando si basano su pulsioni emotive ed esigenze politiche attuali, ma sacrificano la storia, danno luogo a ricostruzioni povere di tutti gli eventi legati agli stermini di massa del Novecento, siano stati perpetrati dai Nazisti o dai Sovietici.
Appendice
Nelle Terre di sangue – Polonia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Lettonia, Estonia – tra il 1933 e il 1945 Sovietici e Nazisti uccisero intenzionalmente 14 milioni di persone. «Il conto di 14 milioni non è un calcolo completo di tutti i decessi che il potere tedesco e quello sovietico causarono nella regione; è una stima del numero di persone uccise in una premeditata politica di sterminio. In genere, escludo quindi dal conteggio le persone che perirono di fatica o malattia o malnutrizione nei campi di concentramento o durante le deportazioni, le evacuazioni o la fuga dagli eserciti. Escludo anche quanti morirono ai lavori forzati. Non conto la gente che mancò per fame in conseguenza della penuria del tempo di guerra, o i civili che perirono nei bombardamenti o a seguito di azioni belliche, né i soldati deceduti su campi di battaglia». (Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin: 463-464).
Nella tabella seguente, ricavata dalle stime di Snyder, le cifre approssimate del massacro intenzionale ad opera di Sovietici e Nazisti.
Numero delle vittime | Nazionalità delle vittime |
Carnefici |
---|---|---|
3,3 milioni | Cittadini sovietici (soprattutto ucraini) lasciati deliberatamente morire di fame dal loro governo in Ucraina nel 1932-1933. | Sovietici |
300.000 | Cittadini sovietici (perlopiù ucraini e polacchi) fucilati dal loro stesso governo nell'URSS occidentale fra le quasi 700.000 vittime del Grande Terrore del 1937-1938. | Sovietici |
200.000 | Cittadini polacchi (perlopiù di etnia polacca) fucilati dalle forze tedesche e sovietiche nella Polonia occupata nel 1939-1941. | Nazisti e Sovietici |
4,2 milioni | Cittadini sovietici (in larga parte russi, bielorussi e ucraini) lasciati morire di fame (nei campi di prigionia e a Leningrado) dagli occupanti tedeschi nel 1941-1944. | Nazisti |
5,4 milioni | Ebrei (in prevalenza cittadini polacchi o sovietici) fucilati o gassati dai tedeschi nel 1941-1944. | Nazisti |
700.000 | Civili per la maggior parte bielorussi e polacchi fucilati dai tedeschi in “rappresaglie” soprattutto in Bielorussia e a Varsavia nel 1941-1944. | Nazisti |
Bibliografia
Commemorative causality
EUROZINE || Modernism/modernity
Saggi di Timothy Snyder
The reconstruction of Nations. Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1559-1999, Yale University Press, New Haven & London 2003.
Nazis, Soviets, Poles, Jews, «The New York Review of Books», December 3, 2009.
Holocaust: The Ignored Reality, «The New York Review of Books», July 16, 2009.
Echoes from the killing fields of the east, «The Guardian», Tue 28 Sep 2010.
What we need to know about the Holocaust «The New York Review of Books», September 30, 2010.
The fatal fact of the Nazi-Soviet pact, «The Guardian», Tue 5 Oct 2010.
Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011.
A New Approach to the Holocaust, «The New York Review of Books», June 23, 2011.
Hitler's Logical Holocaust «The New York Review of Books», December 20, 2012.
A decent and true understanding of the past. An interview with Timothy D. Snyder by Thomas Grillot & Jacques Sémelin, «books&ideas», 14 February 2013.
Terra nera, l’Olocausto fra storia e presente, Rizzoli, Milano 2015.
Fonti delle immagini
Gli Ebrei nell’Europa Centrale: Paul Robert Magocsi, Historical Atlas of Central Europe, University of Toronto Press, Toronto 2019, p. 108.
Le Terre di sangue: Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011, p. 15.
Sala della Memoria del Yad Vashem
Monumento alle vittime del comunismo