La tragica uccisione a tradimento di Alberto Bechi Luserna
di Adriano Vargiu
L’8 settembre 1943
Quella del 1943 fu una calda estate, dal 25 luglio all’8 settembre l’Italia liquidò il fascismo e chiese un armistizio al generale Eisenhower. Così il maresciallo Pietro Badoglio: «Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere, quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa, si è esaurita. L’Italia, per evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta d’armistizio».
«Credo che raramente nella storia – ha scritto Paolo Monelli – un paese sconfitto in guerra e costretto a deporre le armi abbia chiesto un armistizio al vincitore, con una procedura così incerta, esitante, tortuosa contraddittoria come quella seguita dall’Italia estate del 1943».
Lo stesso Badoglio lesse l’annuncio dell’armistizio, dai microfoni dell’Eiar, alle 19,45 dell’8 settembre (poi inciso in disco sarà ritrasmesso a intervalli per tutta la notte): «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Dopo tre giorni seguì il «Proclama agli italiani», sempre di Badoglio: «Italiani – Nell’annunziarvi la sera dell’8 settembre la conclusione dell’armistizio, io avevo precisato che le nostre forze armate non dovevano più compiere atti di ostilità contro le truppe anglo-americane, ma dovevano essere pronte a reagire contro chiunque le attaccasse. Ora le forze armate tedesche, non appena noto l’armistizio, hanno violentemente occupato città e porti e svolto contro di noi azioni aggressive sia in terra sia in mare sia in cielo. Italiani – Il momento è molto grave e solo virili decisioni possono salvare l’Italia. Perciò a ogni atto d’imperio e di violenza si risponda di pari modo con la massima energia. La mente ed il cuore di tutti siano concordi e protesi verso il sacro compito di non lasciare soffocare il nostro paese».
L’annuncio che la guerra contro gli anglo-americani era finita, che cambiava il nemico, suscitò negli italiani più preoccupazione che sollievo, produsse disorientamento non solo nei militari, ma anche nei civili.
A mio padre, ferroviere della stazione di Olbia, giunse l’ordine della militarizzazione. Cosa voleva dire, come doveva comportarsi? Al Comando Militare della stazione nessuno sapeva dare una spiegazione. Un capitano, che a bestemmie buttò giù tutto il paradiso, gli disse di rimanere in stazione, i treni non dovevano fermarsi. La confusione regnava sovrana.
La stazione si riempì di soldati tedeschi, poco più che ragazzi, biondi e con gli occhi di cielo, con nello zaino il pane nero, lo scatolame di sussistenza e il fornellino ad alcool per riscaldare il cibo. Un soldato barattò il suo fornellino con un ferroviere, in cambio di pane bianco, formaggio e salsiccia.
Quattro le famiglie dei ferrovieri che alloggiavano in stazione, tutte con bambini, io fra essi. Quei soldati di primo pelo e mangia crauti ci prendevano in braccio, facendoci divertire e regalandoci tavolette di cioccolato.
Le truppe chiedevano treni per raggiungere i porti del nord dell’isola e imbarcarsi per la Corsica, si ritiravano senza combattere. La Sardegna non ha conosciuto – per dirla con Corrado Stajano – «i tedeschi nemici, i fascisti della Repubblica di Salò, il terrore seminato dalle bande dell’ultimo fascismo, le Brigate Nere, la X Mas, le SS italiane, la tortura praticata nelle ville tristi delle città, gli impiccati agli alberi nelle piazze e neppure la Resistenza, i partigiani sulle montagne e nelle valli, gli scioperi operai che nelle fabbriche del Nord sfidavano gli occupanti nazisti, la guerra civile, la lotta di liberazione nazionale, la speranza di mutare la vita e la storia».
Alberto Bechi Luserna
Stanche della lunga guerra, le forze armate italiane si sfaldarono. Ma non mancarono i casi di fedeltà e di eroismo: «Ufficiale di elevate qualità morali e intellettuali, più volte decorato al valore, capo di S.M. di una divisione paracadutisti, sull’atto dell’armistizio, fedele al giuramento prestato e animato solo da inestinguibile fede e da completa dedizione alla Patria, assumeva senza esitazione e contro le insidie e le prepotenze tedesche, il nuovo posto di combattimento. Venuto a conoscenza che uno dei reparti dipendenti, sobillato da alcuni facinorosi, si era affiancato ai tedeschi, si recava, con esigua scorta e attraverso una zona insidiata da mezzi blindati nemici, presso il reparto stesso per richiamarlo al dovere. Affrontato con le armi in pugno dai più accesi istigatori del movimento sedizioso, non desisteva dal suo nobile intento, finché, colpito, cadeva in mezzo a coloro che egli aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell’onore. Coronava così, col cosciente sacrificio della vita, la propria esistenza di valoroso soldato, continuatore di una gloriosa tradizione familiare di eroismo». È la motivazione della medaglia d’oro al valor militare al tenente colonnello Alberto Bechi Luserna.
Un eroe o un soldato che ha compiuto onestamente e senza viltà il proprio dovere? Bertolt Brecht diceva: «Sfortunato è quel Paese che ha bisogno di eroi». Commenta Umberto Eco: «Perché sfortunato? Lo è perché difetta di persone normali che fanno quanto si erano impegnati a fare, in modo onesto, senza rubare o rifuggire dalle proprie responsabilità, e lo fanno (si dice banalmente oggi) “con professionalità”».
I dizionari dicono che un eroe «è colui che compie un atto eccezionale, che non gli era richiesto, a rischio della propria vita, per giovare agli altri».
Il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna era una persona normale. Aveva un ideale: servire la Patria, fedele al proprio giuramento fino in fondo.
Il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna era un eroe: ha compiuto un atto eccezionale ed è caduto per giovare agli altri.
Sulla sinistra della vecchia Carlo Felice, prima della salita per Macomer e davanti alla zona industriale, un monumento semicircolare di pietra lavica, mattoni cotti e trachite, delimitato da due obici, è stato eretto a perenne memoria dell’eroico ufficiale. La località si chiama Castigadu – e non poteva chiamarsi diversamente! – le scritte sulle due lapidi nel monumento: «Qui – per obbedire alle leggi della Patria e per l’onore della “Nembo” - cadde il ten. colonnello Alberto Bechi Luserna – X - IX - MCMXLIII». «Tu eri come un fiore – i barbari ti hanno reciso – come una spiga di grano – maturo».
Chi era Alberto Bechi Luserna, nato a Spoleto il 21 dicembre 1904 e ucciso a Macomer il 10 settembre 1943? Discendente d’una famiglia di forti tradizioni militari, figlio di Giulio Bechi e della contessa Albertina Luserna. Il padre, scrittore con lo pseudonimo di Miles e ufficiale superiore – morto al comando del proprio reggimento nella grande guerra, decorato di medaglia d’oro al valor militare alla memoria – era uno degli ufficiali, con il grado di tenente, del 67° Reggimento Fanteria, inviato in Sardegna per reprimere il banditismo nelle zone interne. Dall’esperienza nacque il libro Caccia grossa – Scene e figure del banditismo sardo, pubblicato a Milano, nel 1900.
Libro che fece infuriare i sardi (Gramsci e Lussu compresi), l’avv. nuorese Ciriaco Offeddu sfidò a duello l’autore, il quale a causa del chiasso suscitato dovette farsi due mesi di arresti nella fortezza fiorentina di Belvedere (rimando, per saperne di più su l’opera di Giulio Bechi, al bellissimo libro di Manlio Brigaglia, Sardegna perché banditi, 1971).
Alberto Bechi Luserna frequentò il meglio delle scuole militari, la Nunziatella di Napoli e l’Accademia di Modena. Ufficiale di cavalleria nelle campagne coloniali d’Africa, si guadagnò tre medaglie di bronzo al valor militare. Fu a Londra e in Finlandia con incarichi del ministero della guerra. Passato ai paracadutisti, negli aspri combattimenti di El Alamein si guadagnò la quarta medaglia di bronzo. Sposò la contessa Paola Antonelli, dal matrimonio nacque Antonella, poi adottata dal secondo marito della moglie, l’industriale Enrico Piaggio: col nome di Antonella Bechi Piaggio sposò Umberto Agnelli.
Nel 1942, con il grado di tenente colonnello, fu nominato Capo di Stato Maggiore della divisione paracadutisti Nembo. L’8 settembre del ’43 la Nembo si trovava accampata a una quarantina di chilometri da Cagliari, l’armistizio fu accolto negativamente da alcuni comandanti di reparto. La sola fonte di informazioni per le truppe era la radio, ma non tutte ricevevano le stazioni italiane, perciò mancando le disposizioni ogni comandante si regolò come credeva meglio. Un battaglione della Nembo decise di seguire i tedeschi e di continuare a combattere al loro fianco. Il battaglione ribelle era comandato del maggiore Mario Rizzati. Inutilmente il comandante della divisione, generale Ercole Ronco, cercò di fermarlo, richiamandolo all’ordine, ma fu messo agli arresti dagli ammutinati.
Apro una parentesi: degli studenti d’una classe liceale cagliaritana, negli anni Ottanta del secolo scorso, impostarono una ricerca sui fatti relativi alla morte dell’eroico ufficiale della Nembo. Non trovarono nulla né nei libri di storia né nei giornali del tempo. Alla ricerca di qualche testimone, scrissero ai giornali locali. Arrivarono le risposte: ognuno aveva la sua verità, lo so io, te lo dico io. Mi occupai delle lettere arrivate al quotidiano dove collaboravo, ne ricavai un pezzo (non c’era il taglia e incolla), e lo pubblicai.
In sostanza, queste le risposte: 1) Il battaglione che decise di unirsi ai tedeschi della 39° Divisione Panzergrenadieren, diretti all’imbarco per la Corsica, fu raggiunto, nei pressi di Macomer, dal Bechi Luserna, scortato da due carabinieri, su d’una vettura Fiat 1100 mimetizzata; un ufficiale – il capitano Corrado Alvino – gli negò l’ingresso all’accampamento, sparandogli con la pistola d’ordinanza; 2) Bechi Luserna, con il proposito di richiamare al dovere i ribelli, bloccato all’ingresso dell’accampamento, disse all’Alvino: «Ma che siete matti?». L’Alvino rispose: “Non siamo traditori”. Il tenente colonnello fece per entrare nell’accampamento e il capitano gli sparò con la pistola, seguito da una scarica di mitra d’un paracadutista di sentinella; 3) Il corpo di Bechi Luserna, messo in un sacco di iuta, caricato su uno dei camion dei ribelli, fu lanciato in mare nelle Bocche di Bonifacio, durante la traversata; 4) nel 1950 si tenne a Napoli il processo contro l’Alvino, il quale venne condannato.
Conclusi il fritto misto delle lettere pervenute, dicendo che bisognava leggere i verbali del processo, perché la storia non si fa a orecchio. Chiusa la parentesi.
A porre fine ai fuochi pirotecnici di tanti cittadini desiderosi di lode (e inquinatori della cultura), arrivò al quotidiano di Cagliari, «L’Unione Sarda», la lettera di Angelo Corti, pubblicata il 22 ottobre del 1983. Un documento che personalmente considero importantissimo. Leggi la lettera
Oggi su Internet – ribattezzato Bar Web, dove ognuno dice la sua – leggo che Bechi Luserna fu ucciso, assieme a un carabiniere che lo scortava, dall’Alvino e da un paracadutista; che il paracadutista che sparò assieme all’Alvino si chiamava Cosimo, il quale avrebbe riportato alla moglie del tenente colonnello il suo orologio e il portafoglio; che il corpo fu buttato in mare, dopo che dei frati d’un convento si erano rifiutati di dargli sepoltura. Sarebbe bene che qualcuno di buona volontà correggesse le inesattezze riportate su Wikipedia.
Alberto Bechi Luserna fu anche scrittore – come il padre – usando anche lui uno pseudonimo, quello di Eques. Datati 1941 i libri: Noi e loro – Cronache di un soldato vagabondo; Britannia in armi: cronache di pace e di guerra; La falsa democrazia della Gran Bretagna. Postumo, nel 1943, I ragazzi della Folgore, a cura di Paolo Caccia Dominioni, un libro di grande successo, ancora oggi presente nelle librerie, edito da Longanesi.
«I paracadutisti della Folgore – ha scritto Orazio Locatelli – combatterono con leggendario valore sul fronte di El Alamein (Egitto) nell’ottobre-novembre 1942. Respinsero fino all’ultimo i continui e sempre più aspri attacchi del nemico. Un attacco era durato quattro giorni, durante i quali, come scrive il pluridecorato ufficiale dei paracadutisti Alberto Bechi Luserna (proditoriamente ucciso da un compagno d’armi nel ’43) “si sono scannati uomini a migliaia, s’è speso in esplosivo e in piombo quanto basterebbe a edificare una borgata”».
Alberto Bechi Luserna era un comandante d’onore, riporto un capitolino tratto dal libro I ragazzi della Folgore: «Incontriamo due uomini che ne sorreggono un terzo che cammina rigido, a passi incerti come me. Ma non è febbricitante. Ha il volto rigato di sangue e lo sguardo vuoto, come assorto nella visione di qualcosa di assai lontano ch’egli solo scorge.
Ci fermiamo a interrogare i ragazzi che accompagnano il ferito. Vengono dalla linea. Questa notte si sono scontrati corpo a corpo con un gruppo di assalitori nemici. Lotta a ferro freddo. Il ferito ha avuto due o tre pugnalate al capo che gli hanno reciso i nervi ottici. È cieco.
Un improvviso senso di orrore mi prende all’idea di questo ragazzo i cui occhi si sono spenti sullo spettacolo di Alamein. L’ultima visione delle cose del mondo ch’egli serberà nella retina senza luce è questa rovente di sabbie che gli ha arso la vista come per fuoco maligno. Null’altro più vedrà nel buio della memoria che un gammeggiare color ocra, cosparso di fagotti umani già fetidi; Qaret el Himeimat; la nube nera d’una granata; il luccicore d’una lama di pugnale alla luce lunare. Null’altro.
Stringiamo la mano al cieco, con qualche parola di conforto. Egli ci sorride (e il sangue secco del volto si raggrinza componendogli una maschera macabra) e dice: “Non mi dispiace d’esser cieco. Ho potuto vedere la Folgore vittoriosa. Mi basta”. E se ne va, con lo sguardo che par vuoto e non lo è, tra i due compagni che ne guidano i passi».
I paracadutisti della Folgore, impiegati come fanti, dovevano difendere il sistema collinoso di Qaret el Himeimat dai continui attacchi del nemico. Dalla relazione del comandante il 187° Reggimento paracadutisti Folgore: «La divisione Folgore era in quei giorni – ottobre-novembre 1942 – interamente schierata all’ala destra dell’armata italo-tedesca, in pieno deserto, tra il saliente di Munassib e il sistema collinoso Qaret el Himeimat-Magb Rala. Fronte occupato: circa quindici chilometri. Forza complessiva: circa cinquemila uomini, di cui non più di quattromila paracadutisti...».