di Vincenzo Medde
Indice
PARTE PRIMA. LA CHIESA CATTOLICA POLACCA SOTTO L’OCCUPAZIONE TEDESCA
♦ 1. Alle origini della politica anticattolica dei nazisti
♦ 2. L’attacco e la distruzione della Chiesa cattolica polacca
♦ 3. Da Dachau al castello di Hartheim
♦ 4. A Bojanowo un campo di concentramento per le suore polacche
♦ 5. La vita religiosa quotidiana nella Polonia senza preti
♦ 6. Forme di resistenza
PARTE SECONDA. IL VATICANO, PIO XII E LA POLONIA
♦ 7. Come evitare la guerra a spese della Polonia. Le proposte del Vaticano
♦ 8. “et Papa tacet”. Il Vaticano di fronte alla distruzione della Chiesa polacca
♦ 9. Gli storici e Pio XII
♦ Conclusioni
♦ Bibliografia
PARTE PRIMA. LA CHIESA CATTOLICA POLACCA SOTTO L’OCCUPAZIONE TEDESCA
1. Alle origini della politica anticattolica dei nazisti
Incassato il patto Molotov-Ribbentrop, che lo liberava da un possibile attacco da est, Hitler invase la Polonia il 1° settembre da ovest, seguito da Stalin che, il 17 settembre, attaccò da oriente.
L’8 ottobre 1939 Hitler annesse le regioni settentrionali e occidentali della Polonia e creò due nuovi distretti amministrativi tedeschi, il Reichsgau Danzig e il Reichsgau Wartheland. Il 12 ottobre istituì un’amministrazione tedesca per il resto del territorio polacco ad ovest della linea di demarcazione con i territori occupati dai Sovietici, a cui fu dato il nome di Generalgouvernement für die besetzten polnischen Gebiete / Governatorato generale per le aree occupate della Polonia. Le aree annesse, che comprendevano la Pomerania polacca, l’Alta Slesia, il bacino di Dabrowa, parti delle province di Lodz e Cracovia e l’area di Suwalki, coprivano un’area di 91.974 chilometri quadrati con una popolazione di oltre 10,1 milioni di abitanti, di cui 8,9 milioni erano polacchi, 603.000 ebrei e 600.000 tedeschi. Questi territori furono destinati dai nazisti alla germanizzazione integrale; il carattere polacco dell’area doveva essere cancellato; i Polacchi che erano considerati dai Tedeschi una minaccia per il Reich o inadatti alla germanizzazione erano destinati alla deportazione o nel Governatorato generale o nel Reich e allo sterminio finale [Ciechanowski, in Leslie: 214].
Il cattolicesimo era da molti secoli un elemento fondante dell’identità e della coesione nazionale polacca e i Tedeschi sapevano che, se volevano distruggere la Polonia e piegare i suoi abitanti, dovevano attaccare e distruggere la Chiesa e la sua leadership e, per questo, incidere sui legami tra quest’ultima e il Vaticano, bloccando i rapporti con il centro dell’ecumene cattolica e con la sua guida, il Papa. Tant’è che alcuni storici (Huener) considerano l’attacco alla Chiesa, in particolare a quella del Reichsgau Wartheland (d’ora in poi Warthegau), parte di un piano più ampio di distruzione dell’intera nazione polacca.
Se i piani di invasione e annientamento della Polonia furono messi a punto nei mesi precedenti il 1° settembre 1939, l’ostilità nazista nei confronti della Polonia e del cattolicesimo polacco datava da molto più tempo, radicata com’era su un fondo di inimicizia prussiana e tedesca accumulata fin dalle spartizioni della Polonia alla fine del XVIII secolo.
Il Kulturkampf anticattolico degli anni Settanta del XIX secolo nella Germania unificata aveva in primo luogo lo scopo di arginare l’influenza dei cattolici tedeschi, ma i suoi effetti furono di vasta portata anche nelle regioni polacche sotto il dominio di Berlino. Nel 1872, un decreto ministeriale rese obbligatorio l’uso del tedesco in tutte le scuole statali, eccettuate quelle religiose. Il polacco fu bandito anche come lingua straniera e non poteva essere usato come in precedenza per insegnare il tedesco ai bambini polacchi. Agli insegnanti tedeschi fu proibito di far parte delle società polacche e cattoliche e furono offerti incentivi finanziari per lavorare in distretti non tedeschi. Tutti i laureati, compresi i sacerdoti, dovevano superare un esame di cultura tedesca. Nel 1876 il tedesco fu reso obbligatorio in tutti i tribunali e in tutti gli uffici governativi, dagli uffici postali alle biglietterie delle stazioni ferroviarie. Le norme relative all’immigrazione e ai permessi di soggiorno furono rafforzate. Nel 1885 la polizia prussiana espulse 30.000 Polacchi ed Ebrei polacchi che non possedevano documenti corretti. Centinaia di sacerdoti polacchi (e tedeschi) si rifiutarono di rispettare le nuove restrizioni e novanta sacerdoti polacchi, tra cui il primate di Polonia, l’arcivescovo Mieczysław Ledóchowski, furono imprigionati.
Queste misure provocarono due effetti concomitanti, da un lato la crescita del nazionalismo polacco, dall’altro una diffusa identificazione dei Polacchi con il cattolicesimo e dei Tedeschi con il protestantesimo. E la Chiesa cattolica, clero e laici, emerse come un bastione contro la germanizzazione imposta da Berlino [Davies: 93-94; Huener: 45].
2. L’attacco e la distruzione della Chiesa cattolica polacca [ 1 ]
La Chiesa polacca nel 1939 era organizzata in sei province ecclesiastiche, rette ciascuna da un metropolita: 5 di rito latino (Gniezno e Poznań, Varsavia, Vilnius, Leopoli e Cracovia) e una di rito greco-ruteno (Leopoli), più un arcivescovato armeno (anch’esso con sede a Leopoli). Complessivamente, dunque, sei archidiocesi (o metropolitane), un arcivescovato autonomo e 18 diocesi suffraganee. Il 64,9% dei Polacchi era di rito latino cattolico, il 10,4% di rito greco-cattolico, l’11,8% erano ortodossi, il 3,1% protestanti, il 9,8% di religione ebraica [Falconi: 141, 523 nota n. 4].
L’occupazione del Warthegau e la separazione dal Governatorato generale comportò la disarticolazione di tale assetto in quanto alcune sedi suffraganee vennero staccate dalle rispettive metropolitane mentre queste ultime furono, in alcuni casi, divise a seconda del capriccio e degli interessi degli invasori.
Tra i territori annessi, particolare importanza assunse il Warthegau , che i nazisti consideravano una sorta di “laboratorio della politica razziale nazionalsocialista”, un modello politico, amministrativo, culturale e razziale che Hitler, se ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe esteso al Reich del futuro.
Con una superficie di circa 45.000 chilometri quadrati e una popolazione di oltre 4,9 milioni di abitanti, tra cui circa 4,2 milioni di Polacchi, 400.000 Ebrei e 325.000 Tedeschi, nel Warthegau vivevano più di 3,8 milioni di cattolici, il 90% dei quali erano di etnia polacca. Il Warthegau comprendeva quasi la totalità delle archidiocesi prebelliche di Poznań e Gniezno, quasi tutta la diocesi di Włocławek, la maggior parte della diocesi di Łódź e frazioni delle diocesi di Częstochowa, Varsavia e Płock. Nel Warthegau c’erano 1.023 parrocchie, con 1.829 sacerdoti diocesani; inoltre, c’erano 277 membri di ordini religiosi maschili e 2.666 di ordini femminili.
L’attacco alla Chiesa cattolica in Polonia venne condotto in quattro tempi: 1) nel periodo immediatamente successivo all’invasione dell’autunno 1939; 2) durante i primi tre mesi del 1940, quando i Tedeschi presero di mira i sacerdoti delle diocesi di Gniezno e Poznań; 3) nell’agosto 1940, quando circa duecento sacerdoti furono deportati nei campi di di Sachsenhausen e Buchenwald; 4) ai primi di ottobre del 1941, con l’Azione per la distruzione della Chiesa polacca, che portò all’arresto di oltre cinquecento sacerdoti del Warthegau.
A poche settimane dall’invasione, almeno quindici parroci furono uccisi nella sola archidiocesi di Gniezno, tra cui Kazimierz Nowicki, fucilato in una foresta a nord della città e il canonico Maksymilian Koncewicz, capo della vicina parrocchia di Klecko, fucilato in un’esecuzione di massa di ostaggi nel distretto. A volte, i sacerdoti erano l’obiettivo specifico delle esecuzioni; in altre occasioni, furono massacrati insieme con altri Polacchi, che erano spesso membri dell’intellighenzia o leader della società. Ad esempio, il 24 settembre quarantanove Polacchi furono fucilati nel villaggio di Świerkowiec. Tra loro c’erano tre sacerdoti: Zenon Nieziołkiewicz, Władysław Nowicki e Michał Rólski. Il 12 novembre, quarantacinque Polacchi furono massacrati a Paterek, e tra loro c’erano tredici sacerdoti. Il 20 ottobre, diciannove Polacchi furono fucilati nella città di Śrem; Antoni Rzadki, un sacerdote della scuola superiore locale, si offrì di dare la vita al posto di uno dei condannati, che aveva famiglia. I Tedeschi furono d’accordo e Rzadki si inginocchiò in preghiera. Poiché era in ginocchio, la prima scarica lo mancò, così il comandante tedesco gli sparò alla testa. Nella cittadina di Chocz, i Tedeschi occuparono la casa del sacerdote settantenne Roman Pawłowski, dove dissero di aver trovato un caricatore vuoto. Picchiato fino a quando la sua camicia non fu intrisa di sangue, Pawłowski fu portato a Poznań, dove fu condannato a morte. Fu poi portato a Kalisz per un’esecuzione pubblica e fucilato il 20 ottobre 1939. Secondo un rapporto presentato da un altro ecclesiastico, gli Ebrei locali furono costretti a baciare i piedi del cadavere, slegarlo e poi seppellirlo nel cimitero ebraico.
L’attacco dei Tedeschi alla Chiesa nel Warthegau, iniziato nel settembre 1939, fu di vasta portata. Nel corso dei successivi cinque anni il regime confiscò la stragrande maggioranza delle proprietà della Chiesa; chiuse tra le 1.200 e le 1.300 chiese, circa il 97 per cento; sciolse tutte le organizzazioni cattoliche; impose innumerevoli restrizioni che impedivano ai cattolici di praticare pubblicamente la loro fede o di accedere al culto e ai sacramenti della Chiesa. Il 72% per cento del clero del Warthegau venne arrestato; più della metà fu deportata nei campi di concentramento; e più di un terzo dei sacerdoti cattolici morì durante l’occupazione. In breve, la persecuzione della Chiesa nel Warthegau fu considerevolmente più grave che nel Governatorato generale o in altri territori incorporati nel Reich, e – con l’eccezione della diocesi di Chełmno nel Reichsgau Danzig-Westpreußen – le perdite tra il clero nel Warthegau furono le più alte nella Polonia occupata dai tedeschi.
La chiesa della Santissima Trinità a Gniezno nella Polonia occidentale rimase ufficialmente accessibile fino all’ottobre 1941, ma per i primi due anni dell’occupazione le funzioni religiose furono consentite solo la domenica mattina e solo ai Polacchi etnici. I parrocchiani che assistevano alla messa domenicale a volte dovevano subire i rastrellamenti della polizia all’uscita della chiesa e coloro che non potevano provare di avere un’occupazione venivano deportati e costretti ai lavori forzati nel Reich. La chiesa della Santissima Trinità venne depredata delle campane, dei paramenti e degli oggetti per la comunione, mentre la chiesa nel vicino villaggio di Zdziechowa fu chiusa e trasformata in un magazzino per il grano. Anche il cimitero parrocchiale fu saccheggiato e furono distrutte le iscrizioni tombali in polacco. Vennero distrutte anche le statue e le edicole lungo le strade. Furono chiusi il vicino convento e l’ospedale gestito dalle Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli e disperse le suore che vi servivano. Nell’ottobre 1941 la chiesa della Santissima Trinità di Gniezno fu chiusa ai Polacchi e messa a disposizione dei cattolici tedeschi nel 1942. I Polacchi che in seguito tentarono di partecipare alle messe vennero invitati dal sacerdote tedesco ad andarsene, non senza che all’ingresso della chiesa fosse appeso un cartello con la scritta “Vietato l’ingresso ai Polacchi”.
Dopo l’arresto di massa del 9-10 novembre 1939, in un sobborgo di Łódź venne allestito un campo temporaneo per circa 1.500 arrestati. Tra questi vi erano più di cinquanta sacerdoti, tra cui il vescovo suffraganeo di Łódź, Kazimierz Tomczak. I sacerdoti nel campo vennero costretti a pulire le latrine e a trasportare gli escrementi, furono picchiati, lasciati senza cibo per giorni e sottoposti a insulti e umiliazioni di ogni genere.
Il più noto tra i luoghi di detenzione del clero del Warthegau era Fort VII, una roccaforte del diciannovesimo secolo nella periferia di Poznań. La struttura doveva contenere circa 1.200 carcerati, ma ne imprigionava un numero ben maggiore, tra 10.000 e 15.000, diventando così il sito centrale per la detenzione del clero polacco. Le condizioni a Fort VII erano spaventose; nella fortezza circondata da un fossato diecine di prigionieri languivano in ciascuna delle celle sotterranee, senza finestre, non riscaldate, umide e maleodoranti. In tali condizioni le malattie dilagavano e il tasso di mortalità era elevato. Gli ecclesiastici subivano forme specifiche di abusi, che le guardie trovavano particolarmente divertenti; ai sacerdoti, ad esempio, veniva ordinato di celebrare servizi di culto e cantare inni, accompagnati dallo scherno e dalle beffe delle guardie e a volte venivano obbligati a cantare inni funebri mentre uno di loro veniva torturato.
Descrivendo il suo interrogatorio all’arrivo a Fort VII, il sacerdote di Poznań Florian Deresiński ricordava: «Fin dal primo giorno sono stato sottoposto a interrogatori nel quartier generale della Gestapo, dove ogni volta, per estorcere una confessione, venivo steso su un tavolo; due mi tenevano fermo per le gambe e altri due mi colpivano con un manganello di gomma e un bastone fino a farmi perdere i sensi. Gli interrogatori, tutti i giorni, duravano dalle 9:00 alle 18:00. Dopo una settimana, venne utilizzato un metodo diverso, che consisteva nella torsione delle gambe: due mi tenevano fermo sul tavolo, mentre un altro mi torceva il piede fino al limite. Durante una di queste procedure ho sentito uno schiocco al ginocchio e ho perso conoscenza. Dopo essermi ripreso, mi sono reso conto che il mio ginocchio sinistro era rotto. Ogni volta che perdevo conoscenza, venivo rianimato con getti di acqua fredda sulla nuca. Durante gli interrogatori, sono stato picchiato molte volte» [cit in Huener: 95].
Jonathan Huener, ricostruite le violenze tedesche nella parrocchia di Gniezno, osserva che tali violenze, basate com’erano su un’ideologia antipolacca e anticattolica, «furono applicate sistematicamente durante gli anni dell’occupazione ed erano illustrative della più ampia agenda anti-ecclesiastica nazista nel Warthegau, un’agenda che prendeva di mira non solo la leadership della Chiesa, ma anche le sue proprietà, la sua struttura amministrativa e soprattutto il suo rapporto con la società polacca e l’identità nazionale polacca».
Il successo della germanizzazione del Warthegau dipendeva sia dalla crescita rapida e sostenuta della popolazione tedesca sia da un concomitante declino della popolazione polacca. Ma nei primi due anni di occupazione l’andamento demografico e il rapporto tra Polacchi e Tedeschi non aveva registrato un andamento soddisfacente per i dirigenti nazisti. Un rapporto dell’agosto 1941 affermava infatti che «nonostante le mutate condizioni politiche e la situazione economica spesso difficile, la forza biologica del popolo polacco non si è in alcun modo indebolita»; né le morti polacche dal settembre 1939, né le deportazioni nel Governatorato generale e nel Reich, qui poi costretti ai lavori forzati, avevano portato alla perseguita riduzione della popolazione polacca nel Warthegau. Le autorità non erano solo preoccupate per la situazione demografica delineata nel rapporto; alcuni erano anche convinti che i preti cattolici polacchi incoraggiassero i loro parrocchiani a generare figli come mezzo per realizzare il rinnovamento nazionale della Polonia.
Nel corso del 1940, era diventato chiaro che il progetto di sostituzione etnica era se non bloccato fortemente ostacolato, per cui il Warthegau sarebbe rimasto, almeno in quella fase, a stragrande maggioranza polacca. La popolazione polacca non aveva smesso di frequentare la chiesa o di concepire figli, e i due fenomeni erano, nella mente di alcuni politici nazisti, strettamente legati e indicativi della forza del nazionalismo polacco e dell’ostilità verso il regime di occupazione. Occorreva dunque intensificare l’attacco alla Chiesa cattolica, ai suoi ministri, alle sue strutture fisiche e organizzative.
Ai primi di ottobre 1941 ebbe così inizio quella che le autorità tedesche chiamarono “Azione per la distruzione della Chiesa polacca”, durante la quale, in sole quarant’otto ore, vennero arrestati e internati in tre campi più di cinquecento religiosi.
Diocesi | Sacerdoti attivi nel 1939 |
Sacerdoti attivi nel 1944 |
---|---|---|
Częstochowa | 86 | 2 |
Gniezno | 306 | 11 |
Łódź | 300 | 11 |
Płock | 30 | 1 |
Poznań | 681 | 28 |
Włocławek | 400 | 8 |
Totale | 1833 | 62 |
Tabella, qui ridisegnata, in Huener: 236
Subito dopo gli arresti di massa di ottobre, il francescano tedesco Hilarius Breitinger condusse un’indagine sulla situazione dei sacerdoti nell’archidiocesi di Poznań, dalla quale emerse un quadro disastroso: allo scoppio della guerra nell’archidiocesi c’erano 681 membri del clero secolare e 147 membri maschili degli ordini religiosi, al 10 ottobre 1941 rimanevano solo 34 sacerdoti; settantaquattro sacerdoti erano stati fucilati o erano morti nei campi di concentramento, 120 erano stati deportati nel Governatorato generale e 451 erano attualmente internati in prigioni e campi di concentramento.
In tutto il Warthegau erano rimasti solo settantatré sacerdoti attivi: undici nell’archidiocesi di Gniezno, trentaquattro nell’archidiocesi di Poznań, dodici nella diocesi di Łódź, dodici in quella di Włocławek, quattro distribuiti tra le piccole sezioni delle diocesi di Varsavia, Płock e Częstochowa.
Dopo l’arresto e l’internamento dei sacerdoti, i Tedeschi chiusero altre centinaia di chiese, non senza averle prima depredate e saccheggiate. All’indomani dell’Azione, nella diocesi di Gniezno solo ventinove chiese rimasero ancora aperte, ma undici di queste erano riservate ai soli Tedeschi. Nell’archidiocesi di Poznań, delle 441 chiese aperte al pubblico prima della guerra, al 10 ottobre 1941 ne erano rimaste solo 30. Entro i confini della città di Poznań, delle trenta chiese e quarantasette cappelle del settembre 1939, rimasero aperte ai Polacchi solo due chiese e una cappella, per i circa 180.000 fedeli rimasti in città.
I risultati dell’indagine di Breitinger vennero presto messi a disposizione dei vescovi tedeschi e la BBC li rese pubblici in una trasmissione.
Altri dati e dettagli possono essere ricavati dalle ricerche dello storico americano Michael Phayer.
Nel 1942, in Polonia vi erano 14.000 sacerdoti in meno; a Pelplin, 291 dei 646 sacerdoti della diocesi erano scomparsi; a Lublino, 150 erano in prigione e molti altri erano scomparsi. Il Vaticano riferì che dei 2.800 sacerdoti incarcerati a Dachau tra il 1940 e il 1945, solo 816 sopravvissero [Phayer 2008: 24].
Nell’ottobre 1941, poco più della metà degli 828 sacerdoti della diocesi di Poznań erano in prigione, in campi di concentramento, deportati nel Governatorato generale o morti [Phayer 2008: 26].
Gli amministratori religiosi tedeschi imposti dai nazisti potevano essere estremamente severi con i Polacchi, come dimostra l’esempio del vescovo K.M. Splett di Danzica, che assunse la direzione della diocesi di Chełmno. Splett riempì la sua diocesi di sacerdoti Volksdeutsch (di origine tedesca), proibì l’uso della lingua polacca nelle chiese, anche in confessione, ordinò persino la rimozione delle iscrizioni in polacco nei cimiteri e la loro sostituzione in tedesco.
Oltre alla soppressione fisica dei ministri del culto a tutti i livelli della gerarchia e alla chiusura e distruzione degli edifici ecclesiastici, i Tedeschi misero in atto tutta una serie di misure per ostacolare e impedire con la violenza che i Polacchi partecipassero ai riti religiosi e amministrassero e ricevessero i sacramenti; vennero vietati le confessioni in polacco, la preparazione alla prima comunione, i matrimoni con rito religioso, la possibilità di comunicarsi e di seguire le messe, l’ordinazione di nuovi sacerdoti [Phayer 2002: 246].
Il nunzio Cesare Orsenigo con
Adolf Hitler nella cancelleria del Reich,
Berlino 1936.
(Fonte: Kertzer)
I Tedeschi fecero di tutto per impedire che i cattolici polacchi – fedeli, sacerdoti, vescovi – potessero liberamente comunicare con il papa e con il Vaticano. Vietarono che in Polonia fosse inviato un nunzio apostolico, misero sotto sorveglianza la posta in entrata e in uscita, attraverso la stampa e la radio censurarono e manomisero le informazioni da e per il Vaticano. In questa situazione la Santa Sede si trovò costretta ad affidare gli affari religiosi polacchi alle cure del nunzio in Germania, Cesare Orsenigo, cure, per altro, poco attente e di nessuna efficacia, perché Orsenigo – «simpatizzante di Hitler» secondo David I. Kertzer [Kertzer: 82] –, non solo non aveva conoscenza diretta della Polonia, ma, debole di carattere e prudente fino all’inazione, si preoccupava «soprattutto di non urtare i nazisti» [Dizionario biografico degli italiani, vol. 79, voce Cesare Orsenigo; Phayer 2002: 252]. Per contrastare i possibili effetti di tale “preoccupazione”, il cardinale Maglione il 13 aprile 1940 inviò a Orsenigo un telegramma «dal tono chiaramente monitorio» con il quale si invitava il nunzio a non ostacolare o scoraggiare i «Vescovi, che giudicano dovere del loro ministero pastorale presentare denunce e proteste contro le violazioni dei diritti e delle libertà della Chiesa» [cit. in Kertzer: 591, nota n. 6].
La persecuzione della Chiesa nel Governatorato non fu così feroce come nel Warthegau. La ragione di ciò era che Hitler voleva controllare, non annientare, la Chiesa locale. Inoltre, una volta iniziata la guerra con l’Unione Sovietica, Hitler cercò di ottenere, senza riuscirvi, il sostegno della Chiesa per combattere il comunismo. Ciononostante, nel Governatorato generale i Tedeschi uccisero diverse centinaia di sacerdoti polacchi: nella diocesi di Varsavia 212; a Cracovia 30; a Kielce 13; a Lwow, 81; a Vilnius 92. In generale, comunque, il 95 per cento del clero del Governatorato generale rimase nella stessa parrocchia in cui risiedeva prima della guerra, e la loro situazione materiale generale era migliore di quella del clero delle terre annesse.
Erano vietati e impediti i rapporti tra cattolici tedeschi e cattolici polacchi come pure qualsiasi attività religiosa in comune perché l’occupazione nazista si voleva di tipo coloniale e i rapporti tra Tedeschi e Polacchi dovevano essere rapporti tra colonizzatori e colonizzati. Il governatore Hans Frank aveva le idee chiare: «Non è mai avvenuto che un popolo coloniale al comando accettasse la religione degli indigeni, mai è venuto in mente a un inglese di frequentare un tempio indiano o di ricercare un medico stregone» [cit. in Duce: 93].
3. Da Dachau al castello di Hartheim
Nazionalità | Totale | Trasferiti in altri campi o evacuati |
Rilasciati | Liberati il 29-4-45 |
Morti |
---|---|---|---|---|---|
Polacchi | 1780 | 4 | 78 | 830 | 868 |
Tedeschi e Austriaci |
447 | 100 | 208 | 45 | 94 |
Francesi | 156 | 4 | 5 | 137 | 10 |
Cechi | 109 | 10 | 1 | 74 | 24 |
Olandesi | 63 | - | 10 | 36 | 17 |
Iugoslavi | 50 | 6 | 2 | 38 | 4 |
Belgi | 46 | 3 | 1 | 33 | 9 |
Italiani | 28 | 1 | - | 26 | 1 |
Lussem- burghesi |
16 | - | 2 | 8 | 6 |
Danesi | 5 | - | 5 | - | - |
Lituani | 3 | - | - | 3 | - |
Ungheresi | 3 | - | - | 3 | - |
Albanesi | 2 | 2 | - | - | - |
Greci | 2 | - | - | 2 | - |
Inglesi | 2 | 1 | - | 1 | - |
Svizzeri | 2 | - | 1 | - | 1 |
Norvegesi | 1 | - | 1 | - | - |
Rumeni | 1 | - | - | 1 | - |
Spagnoli | 1 | - | - | 1 | - |
Senza nazionalità |
3 | 1 | - | 2 | - |
TOTALE | 2720 | 132 | 314 | 1240 | 1034 |
RELIGIOSI A DACHAU.
Tabella, qui ridisegnata, in Zámečník p. 196
Dei circa 500 sacerdoti arrestati ai primi di ottobre 1941 con l’Azione per la distruzione della Chiesa polacca, 474 furono successivamente internati a Dachau, dove fino alla fine della guerra furono concentrati 2.720 sacerdoti di 20 nazionalità. La stragrande maggioranza – 1.870 – erano polacchi, quasi la metà dei quali vi trovarono la morte. Circa il numero dei deportati e dei morti tra i religiosi polacchi a Dachau le cifre stabilite dagli studiosi variano tra i 1.773 e i 1.780 prigionieri e gli 846 e gli 868 morti [Zámečnik, 2007: 172–173, 196; Huener: 174, 190 nota n. 79].
Osserva in proposito Jonathan Huener: «L’esperienza del clero polacco nel campo, una storia importante di per sé, è anche centrale per la storia della Chiesa cattolica nel Warthegau» [Huener: 174]. Appare naturale quindi che dalla Seconda guerra mondiale i Polacchi abbiano identificato Dachau come il luogo più importante della persecuzione del nazismo contro il clero polacco e il più importante locus memoriae.
Aperto nel 1933, il campo di Dachau doveva all’inizio contenere circa 5.000 prigionieri, ma ai primi del 1940 ve n’erano 12.000 e 32.000 circa quando il campo fu liberato nell’aprile 1945. Tra il 1933 e il 1945, vennero deportati a Dachau circa 190.000 prigionieri, tra cui 40.404 polacchi, ovvero uno su cinque circa. E a Dachau, entro la fine del 1941, i Tedeschi concentrarono la gran parte dei religiosi polacchi arrestati.
Per meglio controllare i prigionieri, l’amministrazione del campo fomentava divisioni e incoraggiava antagonismi e rivalità individuali e di gruppo. Un regolamento dell’11 agosto 1942 stabiliva che le punizioni corporali inflitte con un nervo di bue dovevano essere inflitte dai prigionieri stessi, anche se un prigioniero straniero non poteva colpire un prigioniero tedesco. Il 14 luglio 1943, Himmler ordinò che nei campi femminili l’esecuzione delle sentenze contro le Russe doveva essere eseguita dalle donne polacche e quella contro le donne polacche e ucraine dalle Russe. Sempre Himmler ordinò che, quando non c’erano abbastanza Tedeschi per la funzione di kapo, la procedura doveva assegnare ai Polacchi un kapo francese, ai Russi un kapo polacco, ad altri detenuti un kapo italiano, di modo che le diverse nazionalità fossero contrapposte le une alle altre [Zámečnik: 173-174].
Per un certo periodo, il clero del campo poté contare su alcuni privilegi, che provocarono ostilità e risentimento da parte degli altri detenuti e di alcune guardie. I religiosi polacchi erano trattati più duramente rispetto a quelli di altre nazionalità ed erano separati dai correligionari tedeschi, ai quali era consentito celebrare la messa, partecipare alle funzioni e ricevere i sacramenti, mentre ai preti polacchi e cechi no. Nell’aprile del 1942, Himmler ordinò che al clero tedesco, olandese e norvegese venissero assegnati lavori più leggeri sui terreni adibiti alla coltivazione di erbe medicinali, fiori e legumi, ma allo stesso tempo ordinò che i preti polacchi fossero sottoposti agli stessi lavori faticosi degli altri prigionieri; così, ai religiosi polacchi vennero spesso assegnati alcuni dei compiti peggiori: spazzare le strade del campo, pulire le latrine e trasportare secchi di rifiuti umani [Huener: 176-177; Zámečník: 193]
Gli esperimenti in vivo sui religiosi di Dachau[ 2 ]. Dachau era uno dei campi nei quali venivano effettuati esperimenti sui detenuti, che riguardavano, in particolare, la malaria, il flemmone, l’ipotermia. I preti erano le cavie selezionate [Zeller: 161].
Gli esperimenti sulla malaria, con l’obbiettivo di trovare un vaccino, vennero affidati al dottor Claus Schilling, che inizialmente scelse di operare sui “criminali” e sugli “asociali”, poi tra i sacerdoti polacchi, poi tra i Russi, gli Italiani e i prigionieri di altre nazionalità. Tra gli ecclesiastici scelti come cavie c’erano centosettantasei polacchi, quattro cechi e cinque tedeschi.
Le cavie venivano contaminate sia con iniezione di sangue infetto o di una soluzione ricca di parassiti sia tramite punture di zanzare provenienti dall’allevamento personale del Dr. Schilling o catturate nelle paludi della regione di Dachau.
Più devastanti si rivelarono gli esperimenti per combattere il flemmone, infiammazione a carico dei tessuti molli, problema molto importante per il Reich, perché sviluppandosi da ferite mal curate o non disinfettate, colpiva molti feriti di guerra, procurando dolori lancinanti e gangrene gassose, fino a diventare un importante fattore di mortalità nei campi di battaglia.
Diede impulso agli esperimenti sulla setticemia Himmler, dopo che Heydrich, vittima di un attentato a Praga, morì non per le ferite, che non erano mortali, ma per il sopravvenire di una infezione trasformatasi in gangrena gassosa. Karl Gebhardt, medico e amico di Himmler ottenne di condurre degli esperimenti sui prigionieri del campo di Ravensbrück con l’obbiettivo di accertare l’efficacia terapeutica di vari tipi di sulfamidici e di altri preparati biochimici.
Gli esperimenti iniziarono il 20 luglio 1942 e in una prima fase furono condotti su cinquantasette polacchi, quindici uomini e quarantadue ragazze, per lo più studenti di Lublino e Varsavia. Gebhardt cercò di simulare condizioni simili a quelle delle ferite di guerra; fece incidere i polpacci delle vittime, schiacciare e sfilacciare i loro muscoli e impiantare nelle ferite sostanze per causare infezioni. Usava garze sature di numerose colture batteriche combinandole in vari modi: c’era argilla, frammenti di vetro, schegge di legno, tessuto cellulare frantumato e talvolta anche zucchero d’uva. Fece quindi uso di vari tipi di sulfamidici secondo diversi schemi. Al quarto giorno dell’infezione iniziò la terapia chirurgica aprendo i focolai purulenti.
A settembre Gebhardt iniziò una nuova serie di esperimenti su ventiquattro donne polacche, aprendo direttamente le ferite da infettare e poi tentando di curarle. Intervenne chirurgicamente su un certo muscolo e quando il tessuto fu colpito da necrosi inoculò ceppi di batteri dal pus di pazienti affetti da cancrena gassosa. L’infezione sopravvenne rapidamente e tre donne morirono. Se consideriamo che, nella maggior parte dei casi, la gangrena gassosa era stata causata artificialmente, la mortalità non fu molto elevata a causa dell’azione dei sulfamidici. Cinque donne morirono a causa di esperimenti sui solfuri e molte furono mutilate.
Ai primi di novembre gli esperimenti su cavie umane, i prigionieri, furono organizzati anche nel campo di Dachau, sotto la responsabilità dei dottori Schütz e Kiesewetter. Le vittime selezionate erano ecclesiastici: diciotto polacchi, uno ceco, un olandese. Tramite iniezione vennero inoculati nella coscia campioni di essudato purulento, ciò che provocò primi sintomi dell’infezione – arrossamento, dolore intenso e febbre – e la formazione di enormi flemmoni. Tutti i detenuti sottoposti a questi esperimenti soffrirono orribilmente, se non erano stati così “fortunati” da perdere conoscenza.
Gli esperimenti furono ripetuti su altri venti detenuti e sui quaranta totali undici sarebbero morti, ma i sopravvissuti ne avrebbero subito per sempre le conseguenze, tra le quali la perdita dei denti e varie forme di paralisi parziale.
Padre Jean Bernard, lussemburghese, raccontò uno degli atroci interventi su flemmone a Dachau: «L’infermiere [...] affonda per la profondità di un dito un coltello nel polpaccio, che si era gonfiato fino a deformarsi; poi dalla parte opposta conficca un secondo coltello. Fuoriescono rivoli di sangue, pus e acqua. Successivamente, uno scalpello, smussato nella parte anteriore e con una fessura, viene inserito attraverso il polpaccio, quindi un panno imbevuto di liquido viene infilato attraverso la fessura dall’altro lato e tirato attraverso il polpaccio con lo scalpello. Il lembo rimane nella ferita per evitare che si chiuda. Chi riesce ad alzarsi per sfuggire al fetore spaventoso scappa nel cortile» [cit. in Zeller: 168].
Un prete polacco, Leo Michałowski, fu selezionato per essere sottoposto a test che misuravano la tolleranza umana in condizioni di ipotermia. Gli furono impiantati dei sensori termici nella schiena e nel retto e fu immerso in una vasca di acqua gelata per mezz’ora. Quando la temperatura corporea raggiunse i 30 gradi, perse conoscenza, ma fu subito rianimato [Zeller: 170]. Nel cosiddetto “Processo dei medici” il 21 dicembre 1946 Leo Michałowski rese testimonianza su ciò che dovette subire: «Congelavo in quell’acqua, i piedi e le mani erano diventati rigidi come il ferro, respiravo appena. Cominciai a tremare terribilmente e il sudore freddo mi scorreva lungo la testa. Mi sentivo come se stessi per morire. E poi supplicai ancora una volta di essere tirato fuori, perché non potevo più sopportare l’acqua» [cit. in Huener: 177].
Ma le forme della violenza sui religiosi potevano essere sprovviste di qualsiasi fine utilitaristico, ancorché feroce e disumano. Nel marzo 1942 un prete, Stanisław Wierzbowski, venne sorpreso con dei dollari addosso; per ritorsione punitiva le guardie del campo – dal 28 marzo fino al 6 aprile [Zámečník: 192-193; Zeller: 155-156], dalla domenica delle Palme fino a Pasqua, dunque nella Settimana santa per i cattolici, – costrinsero gli ecclesiastici a sfinirsi in marce ed esercizi dalla mattina alla sera, circondati e inseguiti dalle urla di scherno degli altri prigionieri e dei guardiani: «Se lo meritano! Per tutta la vita hanno inseguito il denaro e derubato i poveri, non hanno mai prestato servizio senza un compenso, e la loro avidità si è manifestata anche qui nel campo! Se lo meritano!». Forzati al limite della resistenza fisica, quaranta religiosi non sopravvissero [Huener: 177]. Padre Wierzbowski fu convocato poco dopo la fine della pena e gli furono inflitti venticinque colpi di nervo di bue e quarantadue giorni di reclusione; la sentenza fu eseguita il 17 aprile in modo così bestiale che la vittima morì poco dopo.
I sacerdoti Kazimierz Grelewski e Josef Pawlowski, entrambi polacchi, furono impiccati il 9 gennaio 1942. Grelewski – il cui fratello Stefan, anch’egli sacerdote, morì a Dachau il 9 maggio 1941 – per essersi fatto il segno della croce e aver detto «Che Dio ti perdoni» dopo essere stato picchiato da un kapò. Pawlowski perché si era rifiutato di calpestare un crocifisso. Padre Grelewski, sul patibolo pochi istanti prima di essere giustiziato, gridò ai suoi carnefici: «Amate il Signore!». I padri Kazimierz e Stefan Grelewski e Josef Pawlowski sono stati beatificati da Giovanni Paolo II [Zeller: 158, 277 nota n. 47].
L’uccisione dei malati e degli inabili al lavoro. La fame, la sete, le malattie, la fatica, le torture indebolivano gravemente i prigionieri, spesso rendendoli inabili a qualsiasi sforzo e lavoro, diventando così, nel linguaggio delle SS, Ballastexistenzen, vite inutili, zavorra da eliminare. E ad eliminare malati e disabili procedette anche l’amministrazione di Dachau secondo una direttiva di Himmler dell’inizio del 1941, avviando, previa selezione, le vittime al castello di Hartheim vicino a Linz in Austria. Qui – come negli altri centri di sterminio – le vittime venivano uccise con il monossido di carbonio. La camera a gas, che era arredata come una sauna per nascondere la sua vera funzione, e la successiva per l’incenerimento dei cadaveri erano situate al piano terra. I piani superiori del castello furono riadattati per fungere da uffici e alloggi del personale [Schwanninger: 159].
Le procedure di sterminio a Dachau e Hartheim rientravano in un programma denominato Sonderbehandlung 14f13, “trattamento speciale”, un eufemismo per indicare l’eliminazione fisica. La combinazione di numeri e lettere derivava dal sistema di archiviazione utilizzato dalle SS: il numero “14” identificava i campi di concentramento, la lettera “f” stava per la parola tedesca “mortalità” (Todesfälle) e il numero “13” identificava il mezzo attraverso cui veniva procurata la morte, in questo caso le camere a gas. Le morti naturali erano registrate con il codice “14f1”, i suicidi o le morti accidentali con “14f2”, le uccisioni durante tentativi di fuga con il codice “14f3”. Le esecuzioni di prigionieri di guerra sovietici nei campi di concentramento erano identificate con il codice “14f14” e la sterilizzazione forzata di prigionieri era registrata come “14h7”.
La stragrande maggioranza dei prigionieri di Dachau uccisi nel quadro della Sonderbehandlung 14f13 – essenzialmente un’estensione del programma di “eutanasia” del 1940-1941 – morirono nel centro di sterminio di Hartheim. La “selezione” di questi deportati iniziò nel settembre 1941 e produsse una lista di circa duemila detenuti da inviare a Hartheim a partire dal gennaio 1942. Nel corso del 1942, ci furono trentadue trasporti a Hartheim e, sebbene i ricercatori non siano d’accordo sul numero totale dei deportati, si può convenire che almeno 2.593 prigionieri di Dachau caddero vittime del “trattamento speciale 14f13”. Il clero polacco fu particolarmente preso di mira dal programma, in particolare coloro che furono deportati nel campo all’indomani dell’ottobre 1941 con l’Azione per la distruzione della Chiesa polacca, molti dei quali erano anziani e inabili al lavoro. Secondo l’ex prigioniero e, dopo la liberazione, storico ceco Stanislav Zámečník, degli oltre settecento prigionieri di Dachau inviati a Hartheim dal maggio all’agosto 1942, quasi la metà erano sacerdoti; tra i sacerdoti c’erano sette tedeschi, sei cechi, quattro lussemburghesi, tre olandesi, due belgi e 310 polacchi.
Fino alla fine della guerra, furono internati a Dachau 2.720 sacerdoti di 20 nazionalità. La stragrande maggioranza – 1.870 – erano polacchi. Tra i religiosi polacchi non solo si registrava il più alto tasso di mortalità (il 48,7%), ma veniva anche reclutata la maggior parte degli “invalidi” inviati a Hartheim. Dei 335 sacerdoti identificati che furono assassinati a Hartheim con la Sonderbehandlung 14f13, ben 310 provenivano dalla Polonia e tutti da Dachau.
Stanislav Zámečnik così attesta recisamente: «i sacerdoti di Dachau furono oggetto delle più spaventose persecuzioni subite dagli ecclesiastici cristiani nella storia moderna».
4. A Bojanowo un campo di concentramento per le suore polacche
Dal 1941 ai primi del 1945 i Tedeschi, chiusi i conventi e le case degli ordini religiosi femminili, organizzarono a Bojanowo nella Polonia occidentale un campo di concentramento per le religiose polacche arrestate. Il numero delle religiose internate a non è stato accertato con precisione, ma alcune stime lo calcolano attorno alle seicento suore, pari al 23% di tutte le religiose del Warthegau.
Prima dell’invasione tedesca, in Polonia erano presenti ottantaquattro ordini diversi di religiose, tra cui dieci di clausura, che includevano 21.914 suore appartenenti a 2.289 case e conventi. La stragrande maggioranza delle suore non di clausura erano impegnate in una varietà di servizi sociali: istruzione, assistenza sanitaria, sostegno e cura degli anziani e degli orfani, servizi ai poveri e ai senzatetto. Inoltre, gestivano più di 1.800 scuole materne, 232 orfanotrofi e centinaia di scuole, ospedali e mense per i poveri.
La violenza antipolacca e anticattolica, implicita nella politica di germanizzazione del Warthegau, non risparmiò le suore, i loro ordini, le case di appartenenza, i servizi religiosi e sociali cui si dedicavano. Delle 2.666 monache del Warthegau, più di 1.500 furono deportate nel Governatorato generale, circa seicento furono incarcerate, non nelle prigioni e nei campi nazisti convenzionali, ma a Bojanowo in condizioni relativamente meno violente.
La “Congregazione delle Suore Ancelle dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria” contava 466 sorelle sparse in otto diocesi, dove gestivano sessantasei scuole materne con quattromila bambini, quattro scuole primarie e cinque orfanotrofi con 222 bambini. Quarantacinque delle loro case e più della metà delle suore si trovavano nel Warthegau. Cinque delle case erano state chiuse già nel settembre-ottobre 1939; altre ventisei furono chiuse tra il dicembre 1939 e il settembre 1942. Le autorità sottoposero le suore di altre dodici case a varie forme di repressione, mettendole agli arresti domiciliari, proibendo loro di fornire servizi sociali e costringendole a iscriversi alla Volksliste (sorta di registro etnico), prima di essere infine deportate a Bojanowo.
Nonostante la chiusura delle loro sedi, le intimidazioni, le deportazioni, le suore rimaste continuarono, in condizioni molto difficili, ad assicurare l’assistenza spirituale e sociale ai parrocchiani; così, anche in sostituzione dei sacerdoti uccisi o deportati nei campi, toccò alle religiose dispensare l’insegnamento catechistico ai bambini, curare la preparazione alla prima comunione, portare l’Eucarestia ai moribondi, officiare le sepolture, mantenere aperte chiese cappelle quando ancora era possibile.
Ai Tedeschi non sfuggì il significato e l’importanza di questo impegno, sia come collante di una comunità che si intendeva disgregare, sia come sostegno di un’identità nazionale che molto doveva alla religione. Come si espresse un membro del partito nazista: «Grazie alle suore la solidarietà tra i Polacchi sta diventando più forte».
Nel febbraio 1941 i Tedeschi inviarono a Bojanovo i primi gruppi di religiose in seguito a un ordine del governatore Arthur Greiser del 24 settembre 1940, che chiedeva lo scioglimento di tutte le istituzioni confessionali del Warthegau, compresi gli ospedali, gli orfanotrofi, i chiostri e le case religiose.
Le regole di Bojanowo imponevano alle religiose di essere presenti all’appello ogni mattina alle 7:00, sotto la sorveglianza di due guardie accompagnate dai cani. Poi iniziava il lavoro, che si interrompeva per un’ora per il pranzo, per terminare alle 18:00. Dopo cena, le suore avevano del tempo libero, che usavano principalmente per assolvere i loro “doveri spirituali”: preghiera, devozione e studio. Gli incarichi variavano, a seconda delle esigenze del campo e delle capacità e della salute delle suore, che erano assegnate a lavorare nella cucina del campo, in un laboratorio di abbigliamento, nella lavanderia e in una piccola fabbrica nell’ex cappella che produceva munizioni ed eliche di aerei. Altre suore venivano mandate fuori per lavori agricoli negli orti e nei campi, per assistenza negli ospedali vicini, o per il servizio domestico nelle case di funzionari di partito, ufficiali della Gestapo e membri delle SS.
Le suore a Bojanowo non conobbero mai le violenze, le torture, gli abusi inflitti ai sacerdoti e ai prigionieri dei lager maschili, tant’è che all’inizio del 1941, un esponente nazionalsocialista lamentò che le condizioni nel campo erano troppo permissive, infatti ad alcune suore era permesso di uscire dal campo per visite mediche, uscite che, sosteneva, permettevano loro di spedire posta senza alcun controllo. Inoltre, alle religiose era periodicamente permesso di recarsi nel villaggio di Bojanowo e di comunicare con i Polacchi locali. A un sacerdote polacco, addirittura, era stato permesso di entrare nel campo per confessare e celebrare la messa tra le suore, dandogli l’opportunità di riferire all’esterno sulle condizioni del campo.
Le autorità tedesche ritennero allora opportuno imporre delle restrizioni: venne impedita la presenza di suore dello stesso ordine nella stessa cella, furono eliminate le immagini religiose, la corrispondenza venne limitata a una lettera (censurata) al mese ai familiari più stretti e una lettera o un pacco al mese da parte dei familiari. Inoltre, le suore non potevano più uscire dal campo e agli ecclesiastici fu proibito di entrarvi, venne infine vietato di indossare gli abiti religiosi tradizionali.
All’origine delle nuove regole e delle restrizioni vi era, oltre che le denunce di lassismo, anche il timore di possibili attività di spionaggio e sabotaggio riferite alla produzione di munizioni nel campo.
Ma neppure le nuove restrizioni resero la vita a Bojanowo simile a quella degli altri campi, nel lager delle suore infatti la mortalità fu contenuta tra gli otto e gli undici casi.
5. La vita religiosa quotidiana nella Polonia senza preti
Come reagirono i fedeli polacchi e i pochi religiosi e religiose rimasti in libertà? Dopo che i sacerdoti furono deportati in massa, l’offerta dei servizi religiosi era drasticamente diminuita, ma le poche chiese ancora aperte la domenica traboccavano di fedeli, come i rapporti delle autorità tedesche attestavano: «le funzioni cattoliche sono invariabilmente sovraffollate. Nonostante il freddo intenso, moltitudini di Polacchi percorrono ancora molti chilometri attraverso la neve alta per andare in chiesa». Nel gennaio 1941 Helmut Bischoff, capo della Gestapo di Poznań, riferiva che «l’anno scorso la popolazione cattolica polacca ha dimostrato che non è in nessun caso disposta a rinunciare al culto domenicale».
Era anche naturale che a Poznań, per esempio, dove ai 230.000 cattolici erano rimaste solo due chiese, queste si riempissero la domenica mattina. Per partecipare alle funzioni domenicali, molti cattolici polacchi che vivevano nelle immediate vicinanze della Germania semplicemente attraversavano il confine per raggiungere una parrocchia vicina; ad esempio, molti Polacchi la domenica mattina attraversavano la frontiera e percorrevano i quasi venti chilometri da Głuszyna nel Warthegau per raggiungere la chiesa di Namysłów nella bassa Slesia.
Come mezzo per indurre i fedeli a non seguire le funzioni religiose, il presidente del distretto di Poznań Viktor Böttcher ordinò, a partire dal 29 luglio 1941, uno stretto controllo all’uscita delle chiese. Coloro che non potevano dimostrare sul posto (con una carta d’identità o un certificato di lavoro) di essere occupati, dovevano essere fermati e portati agli uffici distrettuali del lavoro. Queste retate erano particolarmente pericolose perché coloro che non disponevano della documentazione richiesta potevano essere deportati e assegnati ai lavori forzati in Germania.
Jonathan Huener ha cercato di capire le motivazioni che spingevano tanti Polacchi a correre rischi così alti pur di frequentare le funzioni religiose. Certo la fede e la devozione, ma anche l’esigenza di affermare pubblicamente l’importanza della lingua, della cultura, delle tradizioni nazionali, come espressione di un’identità religiosa comune. E le autorità tedesche continuarono a vedere la frequentazione da parte dei Polacchi delle chiese cattoliche come una manifestazione di nazionalismo. Hans Burkhardt, presidente del distretto di Inowrocław, riferì solo poche settimane dopo gli arresti dell’ottobre 1941 che «per chiunque si senta polacco, è una questione d’onore partecipare alle funzioni la domenica. Così, la frequentazione delle chiese da parte dei Polacchi va ben oltre l’elemento religioso».
Significativo ciò che il vescovo Walenty Dymek, vicario generale a Poznań agli arresti domiciliari, scrisse al nunzio a Berlino Orsenigo per far presente la sua riluttanza a scendere a compromessi con le autorità naziste: «La situazione della Chiesa polacca è desolante. Io stesso probabilmente non resterò libero ancora a lungo. Sono giunto alla convinzione che la Santa Sede non può o, per motivi superiori, non vuole aiutarci... Nel caso in cui dovessi essere arrestato e poi lasciare questa vita, vorrei, in tutta sottomissione, chiedere a Sua Eccellenza di assicurare Sua Santità che nella mia vita ho costantemente cercato di diffondere il regno di Dio, che soffrirò e morirò volentieri per Cristo, ma che non sarò mai un traditore del mio popolo e della mia patria».
Huener, su questo punto, conclude che la frequentazione della chiesa era determinata sia dalla volontà di manifestare l’opposizione agli occupanti sia dall'esigenza di esprimere la dimensione puramente spirituale del proprio essere cattolici.
Infatti, tale dimensione spirituale trovò modo di esprimersi anche in modi meno appariscenti, più privati e raccolti, talvolta ai limiti dell’ortodossia e delle regole ecclesiali, quasi sempre in clandestinità. Così, i Polacchi, religiosi e laici, seppure nelle condizioni più difficili, continuarono a somministrare e ricevere i sacramenti.
Nella parrocchia di Ołobok nel Warthegau meridionale, le confessioni di massa con assoluzione generale erano comuni, l’istruzione per la prima comunione dei bambini era assicurata dai genitori e i preti celebravano i matrimoni in segreto, all’insaputa delle autorità statali. Per le sepolture raramente era disponibile un sacerdote, quindi fu il becchino del villaggio ad assumere l’incarico di officiare le cerimonie funebri. Quando un prete era disponibile, doveva somministrare i sacramenti – confessione, comunione, battesimo – a grandi gruppi di persone contemporaneamente. La domenica di Pasqua del 1942, tra 200 e 250 bambini furono battezzati nella chiesa cattolica del villaggio di Chlebów e nel giugno di quell’anno, il parroco di Konorzewo battezzò circa 80 bambini in una sola domenica.
Divenne comune una sorta di “migrazione sacramentale”, dato che i fedeli si riversavano sulle poche chiese ancora aperte, mentre i pochi preti disponibili erano ormai al servizio dei parrocchiani di molti e diversi villaggi.
Nella parrocchia di Grabowo nel 1938 ci furono 17 battesimi e tutti i battezzati erano del luogo. Nel 1939 ci furono 25 battesimi e 60 nel 1940. Nel 1941 i battesimi furono 187; tra i battezzati, tuttavia, 161 provenivano da altre parrocchie. Nel 1942 ci furono 605 battesimi e solo 32 dei battezzati erano membri della parrocchia. L’anno seguente il prete di Grabowo battezzò 28 bambini della sua parrocchia e altri 1.932 che arrivavano da altri villaggi. In media, quindi, nella chiesa di Grabowo durante il 1943 ci furono 37 battesimi ogni settimana.
L’incarcerazione e la deportazione dei sacerdoti portarono alla ribalta della vita religiosa anche le donne e le religiose, che assunsero ruoli importanti, non convenzionali e prima d’allora prerogativa dei religiosi maschi. A Rakoniewice, un villaggio nell’estremo ovest del Warthegau, suor Piątkówna, autorizzata dal vescovo Walenty Dymek, preparava i bambini alla prima comunione e distribuiva l’Eucaristia agli ammalati, fino a quando, nel 1944, non fu deportata in Germania e assegnata ai lavori forzati.
Per mostrare quali sfide abbiano dovuto affrontare i cattolici polacchi del Warthegau sotto l’occupazione tedesca, Jonathan Huener ha indagato la vita quotidiana nella parrocchia di Nostra Signora dei Dolori nel quartiere Łazarz di Poznań. Le autorità tedesche avevano fortemente limitato le attività parrocchiali, saccheggiato la chiesa e arrestato i fedeli che là si recavano a messa. La maggior parte dei sacerdoti erano stati imprigionati e due erano morti. Ma la partecipazione alle funzioni domenicali era rimasta intensa. Poco dopo l’invasione, il prevosto della parrocchia Józef Gorgolewski e il vicario Edmund Lorkiewicz furono internati nel chiostro di Kazimierz Biskupi. Gorgolewski fu successivamente deportato a Dachau, dove fu ucciso nell’ottobre 1942 insieme con centinaia di altri sacerdoti.
La chiesa di Nostra Signora dei Dolori era una delle due chiese rimaste ancora aperte a Poznań e doveva servire circa 150.000 Polacchi del luogo e di altre dodici parrocchie. L’affluenza la domenica era ovviamente enorme. Inizialmente c’erano sei funzioni domenicali, poi solo quattro, che dovevano essere officiate solo in un periodo di tempo limitato (a partire dal 1942, dalle 6:00 alle 10:00 in estate, e dalle 7:00 alle 10:30 in inverno). Si formarono enormi file e i giovani furono arruolati per accompagnare i visitatori dentro e fuori di modo che le pause tra le messe fossero le più brevi possibile. Per poter accogliere tutti coloro lo desideravano, si arrivò persino a chiedere alle persone di partecipare alle funzioni una volta sola nei giorni festivi.
Il sabato pomeriggio i sacerdoti ascoltavano centinaia di confessioni e ogni domenica in media 2.500 fedeli ricevevano l’Eucaristia. Secondo un’ordinanza emessa dal governatore Greiser nell’ottobre 1940, era permesso confessarsi solo tra le 14:00 e le 18:00, ma i sacerdoti in genere continuavano ancora per ore oltre il limite e, per consentire un maggior numero di confessioni, ai fedeli si raccomandava di essere brevi ed essenziali nell’accusarsi dei peccati.
La domenica pomeriggio i sacerdoti battezzavano fino a venti neonati all’ora, mentre la preparazione alla prima Comunione coinvolgeva centinaia di bambini contemporaneamente. Le sepolture, naturalmente, richiedevano un altro tipo di organizzazione. Secondo un rapporto del 1943 pubblicato dalla resistenza clandestina, le sepolture potevano aver luogo solo nei giorni feriali tra le 6:00 e le 8:00 del mattino, e solo i familiari stretti che avevano ottenuto un permesso speciale dalle autorità erano autorizzati a partecipare. Il sacerdote Józef Sarniewicz ricordava di aver officiato fino a sedici sepolture al giorno nell’ottobre 1944.
La parrocchia era anche impegnata in opere caritatevoli di vario tipo e sebbene la raccolta di offerte durante le funzioni fosse vietata, poteva disporre di cospicui fondi segreti – uno studioso ha dichiarato fino a ventimila marchi tedeschi al mese – che utilizzava per i più bisognosi della comunità, per il sostentamento delle famiglie dei sacerdoti, per fornire cure mediche e farmaceutiche e per altre cause caritatevoli, alcune delle quali non proprio convenzionali. Una parrocchiana, per esempio, ricevette migliaia di Reichsmark dalle casse parrocchiali per liberare sua figlia dal campo di concentramento di Żabikowo. In un’altra iniziativa, una suora orsolina in collegamento con la parrocchia fu in grado di far arrivare dei pacchi ai sacerdoti del campo di Dachau.
6. Forme di resistenza
La maggior parte dei sacerdoti e delle suore nella Polonia occupata, pur correndo rischi mortali, mostrarono dignità e coraggio non solo nelle opere caritative e umanitarie ma anche nella resistenza. Diversi conventi ospitarono e nascosero centri di stampa e distribuzione delle pubblicazioni clandestine. Il clero si ingegnò spesso a fornire alle persone perseguitate dalla Gestapo falsi documenti di battesimo. Nelle remote province montane della frontiera slovacca, i sacerdoti nascosero gli agenti clandestini polacchi che andavano e venivano dal paese [Lukas: 13-17].
Le note del 6 gennaio 1943 inviate al governo polacco di Londra dall’ufficio informazioni della Delegatura (organismo rappresentante in Polonia il governo in esilio) a proposito dell’atteggiamento dell’episcopato riferivano: «Attualmente, l’atteggiamento dell’episcopato è assolutamente chiaro e, prendendo come base l’atteggiamento verso gli occupanti, si possono facilmente distinguere 3 gruppi di vescovi:
a) Il primo gruppo è costituito dai vescovi rappresentanti un alto livello etico e patriottico: il loro atteggiamento verso l’occupante è caratterizzato da un’ostilità implacabile. A questo gruppo appartengono i vescovi: 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9. Questi vescovi esercitano una grande influenza e godono d’una grande autorità. Spesso, essi prendono parte attiva all’attività clandestina e sono gli animatori dell’azione sociale e politica. Il 3 gode della massima autorità e la sua posizione morale si trova rafforzata dal fatto che, politicamente, non propende per alcun partito.
b) Il secondo gruppo e formato da quei prelati il cui atteggiamento può essere qualificato come opportunista. Sono i vescovi 10, 1 e 11. […]
c) Il terzo gruppo, quello dei traditori, e costituito dall’amministratore di Siedlce, il vescovo 20.» [cit. in Falconi: 91, 221-222, 249-250. Ogni numero corrisponde a un vescovo, per evitare di farne il nome].
A proposito del clero le note citate riferivano: «Ci sono due gruppi politici principali nel clero: un gruppo attivo nel settore dell’indipendenza, detto dei “legalisti” e un gruppo indipendente d’azione politica all’interno. I membri del gruppo legalista provengono soprattutto dai missionari, dai pallottini[ 3 ] e dai preti secolari. Le personalità più in vista tra loro sono il rev. 20, il rettore 21, il rev. 22, il superiore 23 e il rev. 24. Costoro sono molto attivi nella DR 126 (combattimento civile); essi hanno redatto una dichiarazione destinata al clero cattolico e hanno inviato al Governo e al vescovo 25 un memoriale sulla situazione del clero. Hanno anche redatto un appello al clero, invitandolo a partecipare alla lotta civile (fra l’altro chiedendo di offrire gli oggetti di valore per i fini della lotta per l’indipendenza e per l’assistenza)» [cit. in Falconi: 252].
Nel Warthegau le opportunità di resistenza erano molto minori che in altre regioni occupate dai Tedeschi, per cui l'opposizione solo raramente poteva essere aperta o violenta; ma se è pur sempre resistenza ogni azione intesa a minare, contrastare o combattere le politiche naziste di persecuzione della Chiesa, è chiaro che i cattolici nel Warthegau, clero e laici, erano coinvolti in varie attività di opposizione: partecipazione in segreto alle funzioni religiose, lotta in organizzazioni partigiane, accoglienza di un cappellano dell’esercito nazionale, distribuzione clandestina dei sacramenti, sabotaggio della produzione di munizioni. Alcune di queste attività erano naturalmente di natura “secolare”, mentre altre rientravano nella dimensione spirituale ed ecclesiastica.
Tra le religiose, alcune erano in contatto con le organizzazioni di resistenza a cui passavano informazioni, altre distribuivano cibo e altri beni di prima necessità ai cittadini, altre ancora ospitavano i fuggiaschi. In alcuni casi, le suore pagarono con la vita tali rischi. Maria Wiśniewska, delle Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli era profondamente coinvolta nelle attività della parrocchia di Nostra Signora dei Dolori a Poznań e, allo stesso tempo, serviva come messaggera dell’Esercito Nazionale (AK) per il distretto di Poznań-Łazarz. Nel luglio del 1942 fu convocata alla Gestapo e informata che da allora in poi avrebbe lavorato nella casa di Franz Wolf, capo per gli affari ecclesiastici. Questo le fornì l’opportunità di passare informazioni su Wolf al vescovo Walenty Dymek, che avrebbe potuto poi trasmetterle oltre i confini del Warthegau ad altri membri della resistenza o della gerarchia ecclesiastica. Wiśniewska fu arrestata nell’ottobre 1943 e portata nella prigione di Fort VII, dove morì il mese successivo in seguito a un brutale interrogatorio.
Helena Dąbrowska, anche lei delle Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, lavorava in un ospizio di Poznań, approfittando della sua posizione per acquistare molto più cibo del necessario che poi distribuiva ai bisognosi di Poznań. Arrestata e imprigionata nel luglio 1941, con l’accusa di furto e appropriazione indebita, nonché per aver trasmesso a Danzica informazioni sulle condizioni del Warthegau, tra cui l’esecuzione di diecine di sacerdoti, Helena Dąbrowska venne deportata ad Auschwitz, dove morì il 31 gennaio 1943.
Le Suore Ancelle dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria a Poznań nascosero in alcune stanze del campanile almeno cinque sacerdoti sfuggiti alla Gestapo. Una delle suore, Maria Róża Wożniak, nell’ottobre del 1941 in seguito a una denuncia era stata arrestata, torturata e deportata nel campo di Ravensbrück, dove morì il giorno seguente la liberazione del campo il 25 aprile 1945.
Tra i vescovi alcuni lasciarono o dovettero lasciare le loro diocesi per andare in esilio. Il cardinale Augustus Hlond abbandonò l’archidiocesi di Gniezno-Poznan, il vescovo Stanistaw Okoniewski rinunciò alla sua diocesi di Chełmno, il vescovo Karol Radonski lasciò Breslavia. La partenza di Hlond, secondo Lukas, deluse i cattolici polacchi, e quando si presentò a Roma, papa Pio XII mostrò il suo disappunto non ricevendolo con molto entusiasmo. Il cardinale nel 1943 tornò in Polonia, ma i Tedeschi lo arrestarono e gli proposero di scambiare la sua libertà con l’invito ai suoi compatrioti di contribuire alla lotta contro il comunismo; Hlond rifiutò [Lukas: 13-17].
L’abbandono delle diocesi da parte di alcuni vescovi sembrò risultare sorprendente in Vaticano, se il segretario di Stato, cardinale Maglione, in una lettera del 30 maggio 1942 all’arcivescovo di Cracovia, Adam Stefan Sapieha, poteva rimarcare che «questa Segreteria di Stato […] si è inoltre ripetutamente adoperata sia perché fosse consentito il ritorno ai Presuli che, al principio delle operazioni belliche, di loro iniziativa quindi senza aver consultato e aver ricevuto l’approvazione della Santa Sede [grassetto redazionale] uscirono di Polonia, sia per la liberazione degli Ecc.mi Vescovi internati o deportati». Più oltre, nella lettera, Maglione tornava a insistere sulla differenza tra coloro che erano rimasti con il loro gregge e coloro che invece lo avevano abbandonato: «Prego Vostra Eccellenza di voler rendersi interprete, presso gli Ecc.mi Vescovi che Ella potrà avvicinare o con i quali potrà, comunicare, dei paterni sentimenti dell’Augusto Pontefice. A tutti: a quelli che, pur in mezzo a tanta difficoltà, rimangono al governo del gregge loro, come agli altri che in una penosissima inazione siedono lontani dai loro figli» [in Actes et Documents du Saint Siege Relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 3b: 587-588, d’ora in poi abbreviato in ADSS].
PARTE SECONDA. IL VATICANO, PIO XII E LA POLONIA
7. Come evitare la guerra a spese della Polonia. Le proposte del Vaticano
Pur essendo la Polonia un paese di forte radicamento del cattolicesimo, le strade del Vaticano e dei Polacchi avevano iniziato a divergere mesi prima dell’invasione tedesca e dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
Nella primavera del 1939 Hitler intensificò minacce e interventi per strappare ai Polacchi Danzica e l'accordo per un’autostrada e una ferrovia extraterritoriali a gestione interamente tedesca attraverso il corridoio che divideva la Prussia orientale dal resto della Germania. Danzica era stata una città portuale tedesca sul Mar Baltico, che il Trattato di Versailles aveva affidato alla Società delle Nazioni per fungere da porto polacco, l’unico accesso al mare della Polonia. In cambio di Danzica i Tedeschi offrivano un trattato di garanzia dei confini, uno scambio chiaramente ineguale: territori contro promesse. I Polacchi rifiutarono lo scambio non solo perché appunto ineguale, ma soprattutto perché ritenevano che fosse la premessa ad una seconda Monaco, visto che la prima aveva sacrificato inutilmente la Cecoslovacchia al miraggio della pace. Secondo i Polacchi, infatti, Hitler in realtà mirava ad occupare l’intera Polonia.
Pio XII, memore dell’odio e della guerra senza quartiere che aveva diviso i cattolici durante la Prima guerra mondiale, voleva la pace ad ogni costo, ritenendo che l’obbiettivo valesse qualsiasi sacrificio. E del sacrificio dovevano farsene carico soprattutto i Polacchi, accettando di negoziare con Hitler sulla base delle richieste territoriali di quest’ultimo. Condividevano l’impostazione del papa i Francesi e gli Inglesi, i quali a questo modo non facevano altro che reiterare, seppure non così platealmente come nel 1938, la loro tradizionale e fallimentare strategia di appeasement nei confronti della Germania.
Di fronte alle continue provocazioni naziste, intese a suscitare pretesti per attaccare la Polonia, Pio XII continuò a rivolgersi solo ai Polacchi, invitandoli a non reagire. Anche perché, secondo il Vaticano, che diceva di disporre di una “fonte affidabile”, la Germania non intendeva attaccare la Polonia; la fonte affidabile era il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, che il 13 di giugno 1939 aveva ricevuto a Palazzo Chigi il nunzio apostolico in Italia Borgongini Duca, il quale riferì i contenuti del colloquio a questo modo: «Quanto alla situazione internazionale, il Ministro mi pregava di far sapere al Santo Padre che è sua opinione fondata, non esservi pericolo di guerra per sei mesi, non avendo la Germania intenzione di attaccare la Polonia (questo me lo ha affermato nel modo più esplicito) e dentro sei mesi si possono accomodare le cose in maniera da assicurare la pace anche per anni. L’unico pericolo, a suo credere, è costituito dalla Polonia, la quale, per il timore di essere attaccata, può fare qualche pazzia da un momento all’altro, con conseguenze irreparabili per tutti. Mi aggiungeva: “la Polonia ascolta il Papa, quindi sulla Polonia bisognerebbe che Sua Santità facesse opera di persuasione”» [ADSS, vol. 1: 177; Kornberg: 142-144].
Tre giorni dopo, il 16 giugno, il cardinale Maglione, segretario di stato, scriveva al nunzio apostolico in Polonia, Filippo Cortesi: «Da fonte attendibile Santa Sede è informata che la Germania non ha nessuna intenzione di attaccare la Polonia. Prego comunicare confidenzialmente cotesto Governo tale notizia rinnovando delicatamente raccomandazione già fatta dal Santo Padre di prudenza e moderazione» [ADSS, vol. 1: 177; Kornberg: 178].
La «raccomandazione già fatta», comunicata il 3 maggio, era questa: «Ella [Cortesi, nunzio in Polonia] poi non mancherà di far presente, nel modo che crederà più opportuno, a cotesto sig. Ministro degli Esteri [Józef Beck, un discorso del quale era atteso per il 5 maggio] che espressioni calme e moderate suo prossimo discorso potrebbero recare un prezioso contributo alla pacificazione degli animi» [ADSS, vol. 1: 120]. Vale la pena rimarcare che tale invito alla moderazione (in quella forma) venne rivolto solo a Beck e ai Polacchi, ma non a Ribbentrop e ai Tedeschi.
Il 28 giugno il cardinale Maglione telegrafa alla Nunziatura di Varsavia affinché il cardinal Hlond esorti il clero polacco a svolgere un’azione moderatrice. Ai cardinali e ai vescovi tedeschi non viene però rivolta la stessa esortazione perché la «Santa Sede è sicura che Governo Tedesco farà, da parte sua, il possibile per raggiungere lo scopo desiderato» [ADSS, vol. 1: 193].
Beck – che già in altre occasioni aveva rifiutato le proposte tedesche, perché vi ritrovava lo stesso tipo di pressioni che Hitler aveva utilizzato per conquistare la Cecoslovacchia – riteneva che le raccomandazioni di Pio XII in realtà facessero il gioco dei Tedeschi.
Lo stesso cardinale Maglione in una nota del 16 agosto 1939 scrive: «Notizie d’altra fonte mi confermano che la questione di Danzica è un pretesto per la Germania e che questa si propone di fare una guerra di sterminio alla Polonia. Si pensa che è d’intesa con la Russia per una spartizione della povera Polonia» [ADSS, vol. 1: 215]
Il 30 agosto il cardinale Maglione incarica il nunzio di comunicare al presidente polacco che «se Sua Eccellenza il Presidente di cotesta Repubblica dichiarasse che la Polonia non si oppone più al ritorno di Danzica al Reich e chiede di trattare direttamente con la Germania:
a) sulle agevolazioni al traffico polacco nel porto di Danzica
b) suo corridoio
c) sulle minoranze reciproche,
Hitler accetterebbe di trattare. Ove rifiutasse, avrebbe contro di sé l’opinione di tutte le Nazioni, anche di quelle che lo hanno sostenuto finora» [ADSS, vol. 1: 263]. Il virgolettato ricopia semplicemente un appunto scritto da Mussolini, interpellato sul tema della pace da un emissario di Pio XII [ADSS, vol. 1: 259].
Che l’iniziativa del Vaticano potesse essere considerata, come i Polacchi la consideravano, in linea con la politica di Hitler era lo stesso monsignor Tardini, sostituto segretario di stato, a metterlo in evidenza in una nota del 30 agosto 1939 indirizzata al cardinale Maglione: «L’iniziativa, pur essendo nobilissima perché tende a salvare la pace, mi sembra, però, non scevra di pericoli. E forse sarebbe bene, a mio sommesso giudizio, prevenire ed evitare tali pericoli. Ecco gli inconvenienti che io vedo. Partendo dal fatto per me fuori dubbio che questo passo verrà conosciuto, ne deduco:
1. che la S. Sede sembrerebbe aver fatto il giuoco di Hitler. Questi mangerebbe un altro buon boccone – Danzica – e nella prossima primavera comincerebbe da capo.
2. che la S. Sede sembrerebbe aver procurato una nuova Monaco. Monaco consisté in questo: Hitler gridò, minacciò ed ottenne quanto voleva. Così per Danzica le grida e le minacce di Hitler otterrebbero auspice la S. Sede quel ritorno di Danzica al Reich che non si è potuto ottenere con trattative pacifiche.
3. che la S. Sede sembrerebbe un po’ troppo legata a Mussolini. Sarebbe infatti, facile a conoscersi che il suggeritore... è stato lui» [ADSS, vol. 1: 262].
Lo storico canadese Jacques Kornberg si pone la domanda: «Perché l’appello di Pio XII ad evitare la guerra era così sbilanciato e rivolto principalmente alla sola Polonia?» [Kornberg: 143], ed offre le seguenti possibili risposte: a) Pio XII era in grado di esercitare una forte pressione sulla Polonia ma non sulla Germania, su Hitler non aveva alcuna speranza di influire; b) il papa non poteva pronunciarsi pubblicamente a favore della Polonia, «Sua Santità dice che questo sarebbe troppo. Non si può dimenticare che nel Reich ci sono 40.000.000 di cattolici. A che cosa sarebbero esposti dopo un simile atto della Santa Sede!» [monsignor Tardini in ADSS, vol. 1: 256-257]. Questa risposta sembra alludere alla possibilità che i nazisti potessero infierire sui cattolici tedeschi; ma, in realtà, i timori del Vaticano riguardavano anche la possibilità di una separazione della Chiesa tedesca da quella di Roma.
Non era solo il governo polacco a non credere alle proposte di accordo di Hitler; contrariamente al suo papa, disposto invece a fidarsi, il primate di Polonia, cardinale Hlond, non si faceva illusioni, come annotava monsignor Tardini il 22 settembre 1939: «Ora da tutto l’insieme l’Em.mo [cardinale Hlond] si è formato la persuasione che la meta di Hitler era ed è la guerra. Per la guerra ha preparato armi, aeroplani; per la guerra ha educato la gioventù. Gli aeroplani tedeschi abbattuti dai Polacchi sono stati circa 400 ebbene, essi avevano a bordo tre persone, che erano quasi sempre ragazzi e ragazze della Hitler Jugend dai 18 ai 20 anni! Quando cadevano vivi, apparivano come ubriachi. Da principio si pensò ad abuso di alcool; poi si costatò che a quei giovani erano state fatte iniezioni di eroina. Perciò erano in uno stato di esaltazione e quasi di follia. Formata così la gioventù, preparate ormai le armi, Hitler farà la guerra; ora a questa ora a quella regione: ma la guerra la farà sempre» [ADSS, vol. 3a: 79].
In realtà, l’approccio possibilista di Pio XII provocava sospetti e ansia in molta parte della gerarchia cattolica in Polonia: «Alla fine di giugno, l’ambasciatore americano a Varsavia riferì dello sgomento provato nelle alte sfere della Chiesa cattolica polacca per quello che era percepito come un atteggiamento filotedesco da parte del pontefice; gli alti prelati polacchi temevano che egli intendesse sacrificare la Polonia per proteggere la Chiesa cattolica in Germania» [Kertzer: 88].
8. “et Papa tacet”. Il Vaticano di fronte alla distruzione della Chiesa polacca
Monsignor Domenico Tardini, il cardinale Luigi Maglione, monsignor Giovanni Battista Montini, Kazimierz Papée, ambasciatore polacco
presso la Santa Sede, 16 marzo 1939.
(Fonte: Kertzer)
Pio XII e i suoi collaboratori erano a conoscenza della terribile situazione dei Polacchi e della Chiesa cattolica in Polonia per le informazioni che arrivavano a Roma dalla nunziatura di Berlino, dal governo polacco a Londra, dall’ambasciata polacca presso il Vaticano, dai vescovi attraverso corrieri regolari e straordinari.
Ma un quadro più completo e sistematico venne presentato (dal novembre 1939 all’aprile 1940) dal primate di Polonia, cardinale Hlond, per mezzo di una serie di dettagliati rapporti che riferivano delle persecuzioni e degli assassini dei religiosi, della loro reclusione in prigione o nei campi, della chiusura e del saccheggio delle chiese, della profanazione e appropriazione degli arredi sacri e degli oggetti liturgici, della soppressione di monasteri, conventi e seminari, della distruzione delle associazioni e delle organizzazioni caritatevoli, dei divieti di celebrare messe e battesimi.
In uno dei rapporti di Hlond – che riferiva della situazione fino ai primi del 1940 nella sola diocesi di Poznań, città dichiarata Klosterfrei (libera da monasteri) – veniva fornito uno scorcio parziale ma tragico:
«5 preti fucilati.
27 preti confinati in campi di concentramento a Stuthof e altrove nell’Altreich.
190 preti in prigione o in brutali campi di concentramento polacchi a Bruczkow, Chludowo, Goruszki, Kazmierz Biskupi, Lad, Lubin e Puszczykowo.
35 preti espulsi nel Governatorato generale.
11 preti morti in prigione e i loro corpi bruciati nei forni crematori.
11 preti gravemente malati a causa dei maltrattamenti subiti.
122 parrocchie totalmente prive di sacerdoti» [Hlond: 65; Falconi: 154-155].
Tali rapporti, insieme con i testi di alcune trasmissioni radiofoniche, furono poi pubblicati a Londra nel 1941 con il titolo The Persecution of The Catholic Church in German-Occupied Poland. Reports Presented by H.E. Cardinal Hlond, Primate of Poland, to Pope Pius XII, Vatican Broadcasts and other Reliable Evidence e con una prefazione del cardinale Hinsley, arcivescovo di Westminster.
Ma era il Vaticano stesso che in un rapporto del 1940 poteva costatare: «Le chiese, a cui è consentito aprire solo per due ore, una volta alla settimana, rimangono chiuse a causa della mancanza di officianti. Niente sacramenti, niente predicazione, niente istruzione religiosa. Distruzione assoluta della stampa cattolica un tempo fiorente con i suoi editori di fama mondiale. Niente seminari. Niente conventi. Restrizioni, umiliazioni, oppressione: è una devastazione assoluta e completa» [cit. in Huener: 98 e 102 nota n. 62].
E lo stesso Pio XII, tra gennaio e maggio 1942, poteva scrivere al cardinale Hlond: «... Ciò che Voi Ci scrivete sulla situazione del clero in Polonia, Noi — con nostra grande pena e con nostra infinita tristezza — lo sapevamo già da altre fonti di informazione e Noi avevamo conosciuto i molti dolori ai quali sono esposti i preti polacchi viventi nella situazione del conflitto mondiale e sotto le minacce. ... Noi conosciamo esattamente e subiamo dolorosamente il contraccolpo dell’attuale deplorevole situazione della Polonia, colpita da tante orribili disgrazie e sopportante senza piegare ogni sorta di persecuzioni e di colpi» [cit. in Falconi: 259].
Quale fu la reazione del Vaticano di fronte a tale “devastazione assoluta e completa”, della Chiesa polacca, all’uccisione dei suoi ministri, all’abbattimento degli edifici di culto, all’impossibilità per i fedeli cattolici di partecipare ai riti della loro fede? Si può dire che perseguì una forma aggiornata della sua politica di appeasement verso la Germania nazista, giustificata prima con la necessità di evitare la guerra e poi con la convinzione che così si sarebbero risparmiati ulteriori lutti e più grandi sofferenze proprio alle vittime. In fondo, come osserva lo studioso Peter Kent, Pio XII era un appeaser [cit. in Kornberg: 186].
Il papa, il 30 settembre 1939, rivolgendosi a un gruppo di Polacchi residenti a Roma guidati dall’ambasciatore Papée e dal primate cardinale Hlond, aveva ancora parole di speranza e di fiducia, o forse forzatamente ottimistiche, tenuto conto di ciò che era accaduto in Polonia solo nel primo mese di occupazione: «Siete venuti, non per avanzare rivendicazioni, né per erompere in chiassose lamentazioni, ma per chiedere al Nostro cuore, alle Nostre labbra, una parola di consolazione e di conforto nella sofferenza […] Ciò che vi resta anzitutto è lo splendore di un coraggio militare, che ha riempito di ammirazione gli stessi vostri avversari, e al quale hanno reso lealmente omaggio. […] Vogliamo anche sperare che Dio, nella sua misericordia, non permetta che nel vostro Paese venga ostacolato l’esercizio della religione. Vogliamo anche sperare, nonostante tanti motivi di timore, ispirati dai noti disegni dei nemici di Dio, che la vita cattolica possa continuare profonda e fruttuosa tra voi; che possiate rinnovare le cerimonie di culto, le manifestazioni di pietà verso l’Eucaristia e di omaggio alla Regalità di Cristo, di cui le vostre città e le vostre campagne hanno dato ancora recentemente il magnifico spettacolo; che la stampa cattolica, le istituzioni caritative, le opere sociali, l’insegnamento religioso, godranno della libertà che è loro dovuto. Per questo esortiamo soprattutto i vostri pastori spirituali a continuare, ad incrementare ulteriormente, le loro iniziative nel campo che, con l’aiuto di Dio, possano restare aperte al loro zelo. Quali che siano le nuove circostanze in cui questo zelo viene utilizzato, il primo dovere di tutti, pastori e pecore, è quello di perseverare non solo nella preghiera, ma con coraggio anche nelle opere, con incrollabile fiducia […] Il vostro dolore, ben temperato dalla speranza, non sarà quindi mescolato al rancore e ancor meno all’odio».
Nessun accenno, come si vede, alle cause reali di tanto dolore o a coloro (Tedeschi e Sovietici) che tale dolore infliggevano, solo l’appello a cercare conforto nelle pratiche religiose che, per altro, risultavano sempre più difficili quando non impossibili e, comunque, estremamente rischiose.
Il 2 ottobre 1939 l’ambasciatore francese presso il Vaticano, François Charles-Roux, presentò a monsignor Montini della Segreteria di Stato un telegramma del primo ministro e ministro degli Esteri Édouard Daladier che sollecitava il pontefice ad esprimere pubblicamente una chiara condanna dell’aggressione nazista e sovietica alla Polonia: «La Santa Sede ha finora tentato di spiegare la sua astensione a denunziare l’aggressione tedesca contro la Polonia col timore di esporre i cattolici tedeschi alle rappresaglie del regime nazista. Non esiste alcuna ragione di questa natura per giustificarla a tacere davanti all’azione sovietica, e sembrerebbe sorprendente che essa non levasse ora la voce per esprimere l’interesse che le ispirano la Chiesa cattolica di Polonia ed i suoi fedeli, abbandonati oggi ad un potere, di cui la Santa Sede ha solennemente e ripetutamente condannato le dottrine sociali ed i principi antireligiosi. […] Ma noi abbiamo sempre sperato che Pio XII, dietro l’esempio del suo predecessore, non esitasse a richiamare che i principi superiori della morale s’impongono alle nazioni non meno che agli individui, e che non sembrasse sanzionare col suo silenzio la cinica violazione di questi principi, di cui oggi la Polonia è vittima». E l’ambasciatore, in aggiunta, osservava: «inutile usare mezzi tolleranti e misurati con i Tedeschi: che cosa hanno servito in Austria? Il caso Innitzer insegni. Nei Sudeti? In Boemia? Nessun vescovo ha più il coraggio di parlare. Che sarà ora in Polonia? Non è da credere che i Tedeschi risponderanno con rappresaglie sui cattolici; hanno ora bisogno di non essere squalificati di fronte al mondo e all’interno stesso». [ADSS, vol. 3a: 83-86; su Innitzer].
Non è qui inutile osservare che il richiamo di Daladier, esplicito e duro, proveniva da uno che – l’anno precedente, insieme con Neville Chamberlain, Benito Mussolini e Adolf Hitler, con l’accordo di Monaco – aveva consegnato ai nazisti i Sudeti cecoslovacchi. E, sempre Daladier, durante le trattative con l’Urss nell’agosto del 1939, aveva garantito l’assenso francese al passaggio delle truppe sovietiche attraverso la Polonia al fine di consentire la conclusione di un’alleanza franco-britannico-sovietica per dissuadere Hitler dalla guerra, anche se ciò significava l’annessione sovietica della Polonia orientale. E, infine, era sempre Daladier a capo del governo francese che, nonostante i patti e le promesse, nulla fece per aiutare i Polacchi al momento dell’invasione tedesca.
Monsignor Montini fece osservare all’ambasciatore «che il Santo Padre non può ogni giorno commentare gli avvenimenti con approvazioni o condanne; che ogni parola contro la Germania e la Russia sarebbe amaramente scontata dai cattolici sottoposti ai regimi di queste nazioni, con pregiudizio della stessa compagine spirituale dei Polacchi; […] che l’atteggiamento del Governo polacco nei riguardi della S. Sede non fu tale da agevolare ad essa l’opera ch’era pur rivolta a suo bene». [ADSS, vol. 3a: 84]
Con quest’ultima osservazione, con la quale un po’ astiosamente si attribuisce anche al governo polacco la responsabilità della guerra, Montini allude al rifiuto di Beck di cedere alle richieste di Hitler (come suggeriva il Vaticano); rifiuto giustificato perché in realtà, come nel caso della Cecoslovacchia, il piano nazista era chiaramente diretto a distruggere la Polonia e non ad intavolare una seria ed equa trattativa. Ma, evidentemente, in Vaticano ancora ci si ostinava a confidare in una politica di appeasement nei confronti dei Tedeschi che implicava e consigliava la rinuncia della Polonia all’integrità territoriale.
Il 20 ottobre 1939, Pio XII volle ancora occuparsi della Polonia nella sua prima enciclica Summi Pontificatus: «Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa Nostra prima enciclica è sotto più aspetti una vera ora delle tenebre (cf. Lc 22,53), in cui lo spirito della violenza e della discordia versa sull’umanità una sanguinosa coppa di dolori senza nome. È forse necessario assicurarvi che il Nostro cuore paterno è vicino in compassionevole amore a tutti i suoi figli, e in modo speciale ai tribolati, agli oppressi, ai perseguitati? I popoli, travolti nel tragico vortice della guerra, sono forse ancora soltanto agli “inizi dei dolori” (Mt 24,8), ma già in migliaia di famiglie regnano morte e desolazione, lamento e miseria. Il sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante lamento specialmente sopra una diletta nazione, quale è la Polonia, che per la sua fedeltà verso la Chiesa, per i suoi meriti nella difesa della civiltà cristiana, scritti a caratteri indelebili nei fasti della storia, ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo, e attende, fiduciosa nella potente intercessione di Maria “Soccorso dei cristiani” l’ora di una risurrezione corrispondente ai princìpi della giustizia e della vera pace».
Il papa, dunque, continuò a promuovere una politica di appeasement anche dopo l’occupazione tedesca della Polonia, dopo che l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria erano passate sotto la sfera di influenza della Germania, dopo che l’intera Cecoslovacchia era stata occupata, e quando il governo tedesco sperava di raggiungere un’intesa con gli Inglesi che avrebbe lasciato intatto l’impero britannico in cambio della accettazione del dominio tedesco sull’Europa. Ancora l’anno seguente, nel luglio 1940 e dopo la rovinosa sconfitta della Francia, Pio XII incaricò l’arcivescovo William Godfrey, delegato apostolico in Gran Bretagna, di suggerire al governo britannico di verificare l’offerta di pace fatta da Hitler nel suo discorso al Reichstag del 19 luglio. A questo modo il Vaticano invitava Germania, Italia e Gran Bretagna a cercare la pace; anche a costo di sollecitare l’acquiescenza britannica al controllo nazista del continente europeo. I Polacchi espressero la loro opposizione a simili iniziative diplomatiche che avevano come obbiettivo di spingere fuori dalla guerra la Gran Bretagna, il loro unico alleato e l’unico paese ancora capace di combattere [Kornberg: 246-247]. La proposta di pace di Pio XII rivolta a Berlino, Londra e Roma, basata sostanzialmente su un accordo tra Tedeschi e Inglesi – ai primi il dominio dell’Europa, ai secondi la conservazione dell’impero – fu positivamente accolta dall’ambasciatore tedesco in Vaticano, Diego von Bergen, ma sdegnosamente rifiutata dal ministro degli Esteri britannico Halifax, che incaricò l’arcivescovo Godfrey, delegato pontificio a Londra, di riferire a Pio XII che la Gran Bretagna era «determinata […] a non acconsentire al programma di Hitler di diventare padrone d’Europa» [Kertzer: 199-200].
Vale a questo punto la pena di riferire che Pio XII rifiutò di farsi mediatore tra la Gran Bretagna e l’Italia in vista di una pace separata. Il 22 dicembre 1940 il delegato apostolico a Sofia scrisse al cardinale Maglione per informarlo che il ministro britannico a Sofia, George Rendell, chiedeva al papa di farsi latore presso Mussolini di una proposta britannica di pace separata. Monsignor Tardini, in calce alla lettera espresse un parere negativo annotando: «pace... Ma essa sembra pur troppo ancora lontana… circostanze presenti... dichiarazioni degli ambienti ufficiali..., (Insomma bisogna far una buona lettera facendo capire che la S. S. non può...)». E il 14 gennaio il cardinale Maglione rispose al delegato a Sofia: «Le attuali circostanze, peraltro, divenute particolarmente delicate, e le formali dichiarazioni pubbliche, anche recenti, degli uomini di Governo, non sono sfortunatamente tali da far ritenere che la pace sia vicina, pur non impedendo di sperare che circostanze più propizie e più favorevoli disposizioni permettano alla Santa Sede di contribuire con la desiderata efficacia a far cessare i contrasti ed a ricondurre la concordia tra le Nazioni» [ADSS: vol. 4: 305-306, 333; Aga Rossi: 34, 269-270].
Insomma, Pio XII si adoperava per propiziare la pace tra la Gran Bretagna e la Germania, ma rifiutava di spendersi per una possibile pace tra l’Italia e la Gran Bretagna. Perché la riteneva irrealistica o perché non desiderava in alcun modo contrastare la politica tedesca?
Ancora nel 1942 gli Alleati dovevano mettere in guardia Pio XII contro le pressioni che Tedeschi e Italiani avrebbero esercitato per «indurre la Santa Sede ad avallare proposte di pace senza vittoria» [memorandum di Roosevelt a Pio XII cit. in Kertzer: 286]; con i nazisti che occupavano gran parte dell’Europa, una conferenza di pace avrebbe solo ratificato le conquiste di Hitler.
Pio XII nel discorso natalizio del 24 dicembre 1939 fece un cenno critico alla «premeditata aggressione contro un piccolo, laborioso e pacifico popolo, col pretesto di una minaccia né esistente né voluta e nemmeno possibile» [ADSS, vol. 1: 354], discorso nel quale a molti sembrò che si volesse alludere alla Polonia, anche se quello polacco non era affatto un “piccolo popolo” contando nel 1939 circa 35 milioni di abitanti. Sarà lo stesso Pio XII, durante l’incontro con Ribbentrop a Roma l’11 marzo 1940, a chiarire che nel discorso natalizio non alludeva alla Polonia ma alla Finlandia, attaccata dall’Urss il 30 novembre 1939 [ADSS, vol. 1: 385; Duce: 133].
A proposito di questi interventi papali sulla Polonia lo storico canadese Jacques Kornberg osserva: «Sebbene sia gli aggressori tedeschi che quelli sovietici si fossero divisi la Polonia, i governi tedesco e sovietico non furono menzionati per nome, né il papa avvertì, né tanto meno mise sull’avviso i cattolici tedeschi che stavano commettendo atrocità [grassetto redazionale]. Né il papa incoraggiava i Polacchi a resistere attivamente. L’”ora della risurrezione” della Polonia era stata lasciata a “Maria Ausiliatrice”» [Kornberg: 147].
Più forti ed espliciti gli interventi del primate di Polonia, cardinale Hlond, alla radio vaticana il 28 settembre 1939 e nella notte tra il 21 e il 22 gennaio 1940, durante i quali rimarcava che anche le modeste speranze del Santo Padre nel discorso ai Polacchi del 30 settembre erano state grossolanamente deluse. E proseguiva raccontando al mondo: «Ancora più violento e persistente è l’assalto alla giustizia elementare e alla dignità in quella parte della Polonia prostrata che è caduta sotto l’amministrazione tedesca. La parte più ricca della Polonia occidentale viene strappata senza tante cerimonie ai Polacchi e ceduta ai Tedeschi, mentre i veri proprietari vengono stipati in treni maleodoranti diretti verso la regione di Varsavia, devastata dalla guerra, che il Santo Padre solo la scorsa settimana ha descritto come “un deserto dove un tempo ondeggiavano i ridenti raccolti”.
Nel mezzo di uno degli inverni più rigidi d’Europa si sta organizzando un sistema di deportazione interna e di suddivisione in zone, secondo regole e metodi che possono essere definiti solo brutali; e una fame feroce guarda in faccia il 70 per cento della popolazione polacca, mentre le sue riserve di derrate alimentari vengono spedite in Germania per rifornire i granai della metropoli. Ebrei e Polacchi vengono ammassati in “ghetti” separati, ermeticamente chiusi e penosamente insufficienti alla sussistenza economica dei milioni di persone destinate a viverci» [Hlond: 116].
Il 27 gennaio, però, il governo tedesco intervenne presso la segreteria di stato vaticana per protestare contro le trasmissioni radio sulla Polonia, facendo presente che se fossero continuate ci sarebbero state «ripercussioni spiacevoli sia nella stampa tedesca, sia nelle autorità germaniche». A seguito della protesta tedesca il segretario di stato Maglione e Pio XII decisero di interrompere le trasmissioni. Monsignor Montini, sostituto segretario di stato, annota: «Il Santo Padre mi dice che ha disposto di sospendere, per il momento, le trasmissioni. Rispondo augurandomi che … si riprendano presto. Sua Santità sorride e … conviene» [ADSS, vol. 3a: 209].
Non era la prima volta che Pio XII, minacciato, interveniva per ridurre al silenzio gli organi di comunicazione del Vaticano. Il 3 settembre 1939 la polizia arrestò Guido Gonella, autorevole giornalista dell’«Osservatore Romano», come ritorsione per un articolo sull’invasione tedesca della Polonia, che secondo le autorità fasciste danneggiava gli interessi nazionali. Maglione, dopo un colloquio con l’ambasciatore italiano promise che «L’Osservatore Romano» non avrebbe più pubblicato articoli critici riguardo all’invasione tedesca. Mussolini, informato dell’impegno vaticano, ordinò di persona la scarcerazione di Gonella [Kertzer: 120-121].
Pio XII, dunque, in seguito alle proteste e alle minacce dei Tedeschi, decise di non insistere pubblicamente con le notizie sulla situazione in Polonia; una vera e propria retromarcia, come rileva Kornberg, il papa: «di fronte alla rappresaglia tedesca decise di mantenere il silenzio in pubblico, pur dovendo far fronte a una raffica di suppliche da parte dei vescovi polacchi e del governo polacco in esilio» [Kornberg: 148].
La ricostruzione dello storico americano Michael Phayer è parzialmente diversa da quella delineata fin qui; fin da subito, il papa Pio XII in un discorso al collegio dei cardinali denunciò e condannò le atrocità dei nazisti in Polonia, condanna reiterata dalla radio vaticana nel gennaio del 1940. Ma fu l’ultima volta, perché dopo non ci furono altri interventi del pontefice, anche se dalla Polonia arrivavano a Roma informazioni, denunce, richieste di aiuto e preghiere affinché pubblicamente la Chiesa cattolica si schierasse dalla parte dei fedeli cattolici polacchi oppressi e massacrati dai Tedeschi [Phayer 2008: 27-28].
Ma lo storico americano Jonathan Huener posticipa tale “prima e ultima volta”: «Il papa incontrò infine l’approvazione del governo in esilio in un’allocuzione del giugno 1943 davanti al Collegio cardinalizio. Per la prima volta in tre anni, fece esplicito riferimento alla sofferenza della Polonia, espresse un giudizio sugli autori di quella sofferenza (senza specificare quali popoli o nazioni ne fossero responsabili) e sottolineò i diritti degli oppressi. Questa sarebbe stata l’ultima volta che Pio XII avrebbe parlato pubblicamente della Polonia fino a dopo la liberazione di Roma» [Huener: 276].
Appelli al papa affinché condanni l’aggressione nazista. Ai Polacchi riusciva difficile comprendere e giustificare il silenzio o la reticenza o la prudenza di Pio XII e i leader ecclesiastici polacchi, per tutto il 1940, tempestarono Pio XII di lettere in cui documentavano le atrocità cui erano sottoposti i cattolici. Non passava quasi mese senza un nuovo appello: il vescovo Splett scrisse a gennaio, il vescovo Dymek in febbraio, il vescovo Radonski in luglio, il vescovo Preysing in ottobre. Da Cracovia, il 3 novembre 1941, il vescovo Sapieha inviò una lettera al cardinale Maglione, segretario di Stato, per documentare le atrocità naziste contro i cattolici polacchi (senza per altro omettere di rilevare che scriveva di cose già note in Vaticano) e per affermare che «una voce di protesta e di biasimo dalla parte della Santa Sede sarebbe indispensabile» per contrastare «il terrore antireligioso e antiecclesiastico» [ADSS, vol. 3a: 489-491].
Il 14 settembre 1942, il vescovo di Włocławek Karol Radoński, da Londra (aveva lasciato la Polonia il 6 settembre 1939) scrisse al cardinale Maglione una lettera durissima nella quale riferisce ciò che si pensa e si dice in Polonia: «Le chiese vengono profanate o chiuse, la religione è spogliata, il culto è cessato, i vescovi vengono espulsi, centinaia di sacerdoti vengono uccisi o imprigionati, le sante vergini vengono assalite da ladri depravati dalla brama della lussuria, vengono uccisi ostaggi innocenti quasi ogni giorno davanti agli occhi dei bambini costretti a questo spettacolo, il popolo, spogliato di ogni sostanza, muore di fame e il Papa tace (“et Papa tacet”), come se nulla gli interessasse dei suoi fedeli». Il vescovo Sapieha già nel febbraio del 1942 in una lettera al cardinale Maglione non aveva passato sotto silenzio le critiche molto forti a Pio XII: «Conoscendo da tanti anni il Santo Padre, e avendo tante volte ricevuto preziosissime prove della sua bontà, sono addoloratissimo per tutte le mancanze di dovuto rispetto e fiducia che molti gli dimostrano» [ADSS: vol. 3b: 633-636, 529].
In una lettera al cardinale Maglione, del 23 marzo 1943, l’arcivescovo Sapieha non può che confermare quanto già aveva segnalato due anni prima nel novembre 1941: «Quanto alla nostra situazione attuale poco avrei di nuovo da accennare, fuorché il particolare dolorosissimo che la nostra gioventù di anni 16-17 viene trasportata in Germania per lavori che spesso superano le loro forze, e di più moltissime ragazze vengono adoperate per la prostituzione tanto in Germania quanto al fronte. Ci pare questo uno scandalo e un delitto tanto da esigere una protesta» [ADSS: vol. 3b: 770].
Le informazioni sulla repressione nazista e le richieste di un intervento più deciso del Vaticano non provenivano solo dai vescovi, il Governo polacco in esilio, tramite il presidente Władysław Raczkiewicz il 2 gennaio 1943 indirizzò a Pio XII una lettera in cui si chiedeva una condanna più decisa e circostanziata della politica tedesca, lettera che merita di essere citata integralmente:
«Santo Padre,
Le leggi divine calpestate, la dignità umana avvilita, centinaia di migliaia d’uomini assassinati senza giudizio, le famiglie separate, le chiese profanate e chiuse, la religione nelle catacombe — ecco l’immagine della Polonia quale appare dai rapporti che noi riceviamo dal Paese.
In questo tragico momento il mio popolo lotta non solo per la sua esistenza, ma per tutto quello che era santo per lui. Esso non vuole la vendetta, ma la giustizia, non domanda tanto l’aiuto materiale o diplomatico — perché sa che un tale aiuto non può giungere a lui che in grado minimo — ma implora una voce che mostri chiaramente e nettamente il male e che condanni coloro che sono al servizio di questo male.
Io sono persuaso che se si rafforza la convinzione del popolo che la legge divina non conosce compromessi e che è al di sopra delle considerazioni umane dell’ora, il popolo polacco troverà la forza di resistere. Un tale rafforzamento permetterà di conservare lo spirito di coraggio soprannaturale che ha permesso ai cattolici di Varsavia di protestare in nome dei principi cristiani contro le violenze e gli assassini degli ebrei, nonostante che ogni parola del loro appello abbia potuto attirare su di essi delle repressioni peggiori.
In passato, nei momenti difficili della Polonia ma non così pieni di lagrime e di sangue come gli attuali, i grandi predecessori di Vostra Santità si rivolgevano con parole paterne ai polacchi. Oggi, quando nella maggior parte del nostro territorio non si può far prediche né pregare in polacco, il silenzio deve essere rotto dalla voce della Sede Apostolica, e coloro che muoiono senza conforti religiosi, difendendo la loro fede e le loro tradizioni, debbono poter contare sulla benedizione del successore di Cristo.
Ecco la preghiera della mia nazione sofferente, che io depongo ai piedi di Vostra Santità, rendendomi conto delle mie responsabilità di Capo di Stato.
Londra 2 gennaio 1943
Wladislaw Raczkiewicz».
[cit. in Falconi: 282-283].
Un volantino distribuito dalle forze della resistenza descriveva in dettaglio la frustrazione dei Polacchi: «Nei villaggi si può costatare il declino della vita religiosa a causa dell’indifferenza del Vaticano verso la sorte delle chiese cattoliche in Polonia. I contadini sono sconcertati dal fatto che non sia stato il papa ma il presidente Roosevelt ad accusare Hitler di tendenze antireligiose. L’acquiescenza e il comportamento timido del clero non migliorano in alcun modo la situazione. Le imperscrutabili politiche del Vaticano non faranno altro che contribuire ad approfondire questo processo. I socialisti e i membri del Partito dei Contadini hanno constatato, e si lamentano, che il papa rimane fedele agli Italiani» [cit. in Huener: 278].
Ma la stampa clandestina di sinistra, di destra e di centro scriveva in termini a volte estremamente duri della sfiducia e della delusione dei Polacchi nei confronti del Vaticano e del papa: « … l’ideale cristiano sta morendo. La Chiesa di oggi è una potenza materiale e amministrativa, e anche una forza politica, mai, ahimè, non più una forza morale. … Nella persona del papa noi non abbiamo trovato né un grande apostolo né un padre. Il male è più profondo... Nelle misure prese dall’autorità ecclesiastica l’ideale cristiano è relegato all’ ultimo posto, sostituito dalla politica e dalla diplomazia» [cit. in Falconi: 291].
La risposta di Pio XII alle richieste di interventi più decisi contro il nazismo. Pio XII, che già dall’autunno 1939 era in possesso di molte informazioni sulla repressione violenta dei nazisti contro i cattolici in Polonia, come reagì dunque alle ripetute e crescenti richieste provenienti dalla Chiesa e dalla società polacca di un suo intervento pubblico in difesa dei fedeli polacchi?
Pio XII era «Uomo più riservato dei suoi successori Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II o Francesco; Pio XII, era dotato di un linguaggio elevato e ampolloso e coltivava un’aria di autorità e onniscienza … preferiva le vie della diplomazia alla protesta, alla condanna o all’appello alla resistenza» [Huener: 283]. La sua reazione fu dunque improntata alla moderazione, al riserbo, al rifiuto di prese di posizione pubbliche di critica inequivoca delle politiche naziste contro i cattolici; insomma, il papa scelse il silenzio, almeno in pubblico, alternato a rilievi impersonali e generici che mai nominavano aggressori e aggrediti, carnefici e vittime.
Una scelta che lo stesso Pio XII spiegò e giustificò in diverse occasioni; il 14 ottobre 1939 «L’Osservatore Romano» pubblicò un articolo rivisto e corretto dal papa che precisava: «anche se il dolore di colui che è il Padre delle nazioni è e dovrebbe essere profondo, quando una tragedia colpisce uno dei suoi figlio diletti, ciò non significa che la reazione causata da tale dolore debba prendere forme incompatibili con il suo ruolo di Padre di tutti» [cit. in Riccardi: 90].
Il 13 maggio 1940, durante un colloquio con l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Alfieri, secondo quanto riferito da monsignor Montini, Pio XII affermò: «Loro sanno [gli Italiani], sanno sicuramente e completamente le orribili cose che avvengono in Polonia. Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e solo Ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura» [ADSS: vol. 1: 455].
Nelle note datate 18 maggio 1942 monsignor Tardini spiega che un intervento pubblico forte da parte del papa avrebbe potuto procurare più danni che vantaggi alle vittime dei Tedeschi: «… non sembrerebbe, innanzitutto, opportuno un atto pubblico della Santa Sede per condannare e protestare contro tante ingiustizie. Non già che manchi la materia; non già che non rientri, tale condanna, nei diritti e nei doveri della S. Sede (quale suprema tutrice anche della legge naturale); ma ragioni pratiche sembrano imporre di astenersi, almeno per ora, da simile pubblica manifestazione. Infatti – date le circostanze attuali – una pubblica condanna della Santa Sede verrebbe ampiamente sfruttata a scopi politici da una delle parti in conflitto. Di più il Governo tedesco, sentendosi colpito, farebbe senza dubbio due cose, cioè inasprirebbe ancora la persecuzione contro il cattolicismo in Polonia ed impedirebbe in tutti i modi che la S. Sede avesse contatti, comunque, con l’episcopato polacco ed esercitasse quell’opera caritativa, che ora per quanto in forma ridotta può compiere. Sicché, in definitiva, una pubblica dichiarazione della S. Sede verrebbe ad essere snaturata in se stessa e sfruttata a finalità persecutrici» [ADSS, vol. 3b: 570, corsivo nel testo].
In una lettera del 31 gennaio 1943 al cardinale von Faulhaber, arcivescovo di Monaco, Pio XII fornisce ulteriori chiarimenti: «Abbiamo usato il termine “imparzialità” per descrivere il nostro comportamento in materia di guerra; non la parola “neutralità”. La neutralità potrebbe essere intesa nel senso di un’indifferenza passiva, che non si addice al capo della Chiesa di fronte a tali eventi. Per Noi, imparzialità significa giudicare le cose secondo verità e giustizia, per cui, tuttavia, nel caso di proclami pubblici da parte Nostra, abbiamo tenuto in massima considerazione la situazione della Chiesa nei singoli Paesi, per risparmiare ai cattolici stessi difficoltà evitabili» [ADSS: vol. 2: 293-294; Huener: 290 nota n. 54].
Il 2 giugno 1943, nella allocuzione in risposta agli auguri dei cardinali (il 2 giugno, festa di S. Eugenio, cadeva il suo onomastico), Pio XII tornò a spiegare: «Voi non vi attenderete che Vi esponiamo nei dettagli tutto ciò che abbiamo tentato e intrapreso per addolcire le loro sofferenze, migliorare le loro condizioni di vita morali e giuridiche, proteggere i loro diritti religiosi fondamentali, venire in soccorso alle loro necessità e ai loro bisogni. Tutte le parole che a questo scopo Noi rivolgiamo alle autorità competenti, ogni dichiarazione pubblica, devono essere veramente operate e misurate da Noi nell’interesse delle vittime, per non rendere, contrariamente alle Nostre intenzioni, la loro situazione più pesante e più insopportabile» [cit. in Falconi: 92].
Per quanto riguardava il Warthegau in particolare, il 30 aprile 1943 Pio XII, in una lettera a Konrad Preysing, vescovo di Berlino, riaffermò che la sua priorità in tale regione era il mantenimento della cura pastorale che era ancora possibile esercitare; nelle prudenti parole del papa: «Le considerazioni … e nel caso speciale del Warthegau, soprattutto, il timore di mettere in pericolo ciò che resta dei ministeri della Chiesa, Ci ha trattenuto dal sollevare apertamente la questione delle circostanze della Chiesa in quel luogo» [cit. in Huener: 286].
Kornberg rileva che «la ritorsione che Pio XII temeva era contro la Chiesa, contro il clero cattolico, e non contro coloro che sono al di fuori della Chiesa: Ebrei, Rom e Sinti, Serbi in Croazia o altri» [Kornberg: 251, 254].
Eppure, nell’enciclica di Pio XI, Ubi arcano Dei, la Chiesa era definita proprio «un istituto divino deputato a custodire la santità del diritto di tutte le genti; un istituto che appartiene a tutte le nazioni» [cit. in Falconi: 20].
Pio XII, per spiegare l’atteggiamento e il comportamento del Vaticano durante la guerra, oltre al timore delle ritorsioni naziste in Germania e in Europa e fasciste in Italia, addusse un’altra motivazione ben ancorata nella dottrina e nella pratica della Chiesa, già argomentata, per altro, quando ancora lavorava come collaboratore del cardinale Pietro Gasparri, segretario di stato con Benedetto XV. A difesa della posizione di quest’ultimo durante la Prima guerra mondiale, l’allora monsignor Pacelli sostenne che il papa non poteva schierarsi con nessuno dei belligeranti perché “Padre” di tutti i cattolici che combattevano in campi contrapposti. Inoltre, come poi si espresse da papa il 18 ottobre 1939, «Consapevoli dei doveri che derivano dalla Nostra responsabilità di supremo Pastore, sempre orientato alla salvezza delle anime, non Ci permetteremo – se non costretti – di impegnarci in controversie puramente temporali o territoriali tra gli Stati» [cit. in Kornberg: 253-254].
Ci si può chiedere quanto sia corretto ridurre la distruzione della Chiesa polacca e lo sterminio degli Ebrei a “controversie temporali o territoriali tra gli Stati”.
Oltre alla prudenza che suggeriva di non intervenire pubblicamente in difesa dei Polacchi, il Vaticano affermava che tale posizione era sostenuta da una conoscenza della situazione in Polonia più informata di quella del governo in esilio. Una pretesa questa, del cui fondamento è almeno lecito dubitare, considerato che il governo polacco veniva costantemente e minutamente informato da un ufficio di informazioni dipendente dalla Delegatura e che aveva molteplici legami con i vari gruppi dello stato clandestino e con gli esponenti dei partiti che ancora operavano in Polonia, e tenuto anche conto del fatto che Jan Karski, giunto a Londra nel novembre del 1942, con esperienze e informazioni dirette e di prima mano, aveva confermato ciò che da più di un anno e mezzo il governo polacco sapeva: i Tedeschi stavano attuando lo sterminio totale della popolazione di origine ebraica.
Vale anche la pena osservare che la pretesa di maggior conoscenza della situazione locale non venne avanzata nei confronti dei vescovi tedeschi, slovacchi, croati e francesi ai quali anzi il papa affidò la scelta delle politiche più consone nei confronti dei nazisti.
I Polacchi, religiosi e laici, esponenti della gerarchia ecclesiastica e semplici fedeli, membri della Resistenza e del governo in esilio, nonostante gli interventi del Vaticano a giustificazione dell’atteggiamento del papa, continuarono a pensare che la massima autorità del cattolicesimo mondiale dovesse esprimersi con più forza e più chiarezza sui massacri nazisti in Polonia, contro la Chiesa cattolica e contro gli Ebrei.
E lo stesso Pio XII concedeva: «Io non ho da rimproverarmi assolutamente nulla; se non fosse di essere stato troppo discreto e riservato di fronte a quanto è avvenuto e seguita ad avvenire in Polonia» [cit. in Riccardi: 95]. E, nell’ottobre 1941, dopo un colloquio con l’allora delegato apostolico a Istanbul Angelo Roncalli questi annotava: «Mi chiese se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male» [cit. in Riccardi: VIII].
«Altra cosa è la simpatia per chi soffre, altra la condanna per il delitto compiuto». Non sempre l’atteggiamento, il linguaggio, la comunicazione pubblica di Pio XII e del Vaticano fu improntata alla cautela, all’imparzialità, al riserbo. L’attacco sovietico alla Finlandia, novembre 1939-marzo 1940, venne stigmatizzato con un severissimo articolo dell’«Osservatore Romano» del 2 dicembre 1940, distante anni luce dalla reticenza e dall’ambiguità che caratterizzavano gli scritti e gli interventi sull’invasione tedesca della Polonia.
«Gettati nel cestino tutti gli accordi internazionali, nessuna forza è riuscita a distogliere Mosca dalla cinica impresa. Il bolscevismo, soppresse le libertà politiche, affogato l’individuo nel gruppo, ridotto il lavoro a schiavitù e la violenza a sistema, avvelenata l’anima della Santa Russia, aveva bisogno di aggiungere una nuova pietra preziosa al suo diadema: l’aggressione dei popoli indifesi. Dopo la caccia all’uomo, la caccia alle nazioni. Questa è la dialettica del nuovo marxismo militarista il quale ha abolito la moneta ma non il piombo per i suoi moschetti. Si cadrebbe in grave e pericoloso errore se si considerasse l’attuale guerra contro la Finlandia come una delle tante guerre provocate da controversie di confine, da minacce di sicurezza, da questioni minoritarie. La stampa sovietica ha dato a tutte le offensive russe degli ultimi mesi un carattere messianico [...] La guerra fra i popoli è così inquadrata negli schemi della lotta di classe, e l’avanzata dell’imperialismo sovietico si tramuta in espansione del sistema comunista» [cit. in Miccoli: 55-56].
Il 10 maggio 1940 la Germania invase il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, incurante del fatto che si trattava di paesi neutrali; Pio XII inviò ai sovrani tre telegrammi pubblicati in francese sull’«Osservatore Romano» di domenica 12 maggio 1940, qui appresso quello inviato alla regina dei Paesi Bassi Guglielmina: «Nell’apprendere con profonda commozione che gli sforzi di Vostra Maestà per la pace non sono riusciti a impedire che il vostro nobile popolo divenisse, contro la sua volontà e il suo diritto, teatro di una guerra, imploriamo Dio, supremo arbitro dei destini delle nazioni, di affrettarsi con il suo aiuto onnipotente il ristabilimento della giustizia e della libertà» [ADSS: vol. I: 444; Miccoli: 57-58, 428 nota n. 137].
Da notare che il papa nel telegramma riportato corresse l’originale “teatro di un’invasione bellicosa” con “teatro di una guerra”, come ad attenuare ulteriormente la forza del suo intervento ed evitare una più decisa presa di posizione. Lo stesso Pio XII spiegherà poi all’ambasciatore di Mussolini presso la Santa Sede Alfieri che «nei messaggi stessi non vi si può riscontrare parola direttamente offensiva neppure per la Germania» [ADSS: vol. I: 454].
Il giorno dopo la pubblicazione dei tre telegrammi, l’ambasciatore francese François Charles-Roux incontrò monsignor Tardini al quale fece presente che tutti i cattolici francesi, inglesi, belgi, olandesi e lussemburghesi, si attendevano che il Santo Padre condannasse il crimine commesso dai Tedeschi con l’invasione di tre paesi neutrali. A Tardini che replicava «il Santo Padre ha già parlato, con tanta chiarezza, con tanta elevatezza e con tanto affetto verso i paesi colpiti. Non vedo che cosa Sua Santità possa fare, di più bello, più alto e più efficace», Charles-Roux fece osservare che «altra cosa è la simpatia per chi soffre, altra la condanna per il delitto compiuto» [ADSS: vol. I: 453, Miccoli: 57].
Il linguaggio di Pio XII. Andrea Riccardi scrive delle «incomprensioni» tra Polacchi e Vaticano, dello «scarto, comunque lo si voglia giudicare, tra il linguaggio del papa e l’opinione pubblica dei paesi in lotta» e del fatto che «i polacchi non avevano la percezione dell’impegno del papa». Il cardinale Stefan Wyszyński ricorda: «nel periodo dell’occupazione tedesca la Polonia era così rigidamente isolata dal resto del mondo che per arrivare a noi le notizie dovevano superare enormi difficoltà e ci giungevano incomplete e, talvolta, tendenziosamente deformate… Si stampava solo quello che la censura tedesca permetteva… unicamente informazioni favorevoli alle autorità d’occupazione. Le dichiarazioni del Santo Padre, quasi per principio venivano deformate. Si creava così nell’opinione pubblica, inconsapevolmente, un quadro erroneo della situazione» [cit. in Riccardi: 90, 92, 124].
Altri storici e diplomatici hanno sostenuto che le difficoltà dipendevano anche dal linguaggio del papa, non chiaro, ambiguo e poco incisivo, studiato per evitare lo scontro con i Tedeschi. Lo storico americano David I. Kertzer osserva che il papa usava sempre «parole che entrambe le parti in conflitto potevano interpretare a supporto della propria causa». L’ambasciatore polacco presso la Santa Sede, Kazimierz Papée, durante l’udienza di fine anno 1942, riportò al papa, una volta di più, i racconti delle atroci persecuzioni che Ebrei e Polacchi cattolici subivano ad opera dei nazisti. Pio XII rispose che nel recente messaggio natalizio si era espresso chiaramente e che proteste più esplicite rischiavano di peggiorare la situazione delle vittime. Papée commentò in seguito: «Sono fermamente convinto che parlasse con sincerità. Il papa adesso è sicuro di aver condannato chiaramente e duramente, pur se in maniera generica, i crimini tedeschi nei paesi occupati […] Qui sta il motivo delle difficoltà […] Pio XII […] per la sua natura sensibile e delicata, il carattere dei suoi studi e una certa unilateralità della sua carriera – esclusivamente diplomatica e lontana dalla vita – non può parlare con un linguaggio diverso, e passa accanto alla realtà del nostro tempo senza toccarla, non rendendosi conto di quanto poco un cattolico medio possa comprendere e ricordare delle sue enunciazioni, lontane dai fatti, complesse e raffinate» [cit. in Kertzer: 306-307].
Le considerazioni finali di David I. Kerzer sul silenzio di Pio XII e sulle ambiguità dei suoi discorsi durante la guerra sono molto severe: «Un misto di opaco linguaggio teologico e banalità moralistiche, i suoi sermoni si distinguevano per la loro lunghezza e per la capacità di disseminare, fra fiumi di retorica, perle che entrambe le parti avrebbero potuto definire attestazioni di supporto alla loro causa. Mentre le élite governative a Londra, Roma e Berlino si lamentavano a porte chiuse delle frasi papali che ritenevano gradite ai loro nemici, sia l’Asse sia i governi alleati lavoravano indefessamente per promuovere l’impressione pubblica che il pontefice stesse dalla loro parte» [Kertzer: 534].
Nel “santuario della coscienza” dei milioni di soldati tedeschi. Se il silenzio e l’ambiguità degli interventi del pontefice sono all’origine dello sconcerto, della delusione, del senso di abbandono dei cattolici polacchi, vale la pena chiedersi se le parole e le raccomandazioni del papa potevano influire sui cattolici tedeschi, molti dei quali nazisti convinti e autori dei massacri che annientavano Polacchi ed Ebrei. Ha sottolineato l’importanza del problema il filosofo cattolico Emmanuel Mounier in occasione dell’invasione dell’Albania da parte dell’Italia nell’aprile del 1939: «… ci sono i popoli, Santo Padre, e non soltanto i Grandi; i popoli ricolmi di solitudine. Ci sono quelle masse di cristiani che, per metà si abituano alla violenza a forza di non vederla più scomunicare, e per metà abbassano la testa e ingoiano la loro umiliazione» [cit. in Riccardi: XIII]. E lo stesso tema venne esplicitamente proposto all’attenzione di Pio XII dal cardinale Eugène Tisserant quando chiese «con insistenza al papa, sin dall’inizio di dicembre [1939], di fare un’enciclica sul dovere individuale d’obbedire all’imperativo della coscienza, giacché questo è il punto più vitale del cristianesimo» [da una lettera di Tisserant al cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi, cit. in Falconi: 87].
Ma è proprio in un’enciclica che si afferma che uno dei fini precipui del magistero papale è quello di «correggere veramente ed efficacemente tutta la vita privata e pubblica, tutto e tutti assoggettando a Dio, che vede i cuori, alle sue ordinazioni, alle sue leggi, alle sue sanzioni; penetrando così nel santuario della coscienza tanto dei cittadini quanto di coloro che comandano, e formandola a tutti i doveri e a tutte le responsabilità, anche nei pubblici ordinamenti della società civile, perché sia in tutto e in tutti Cristo» [Ubi arcano Dei, enciclica di Pio XI del dicembre 1922, cit. in Falconi: 21]; detto in altre parole, uno dei più alti compiti del pontefice è quello di «illuminare le coscienze dei suoi seguaci sul comportamento che sono chiamati ad assumere in coerenza coi principi della loro fede» [Falconi: 29].
Ci si può chiedere allora se le fin troppo caute parole del papa – sempre solo allusive, generiche e impersonali perché mai indicarono esplicitamente aggressori e carnefici, aggrediti e vittime, delitti, torture e sterminii – potevano penetrare nel “santuario della coscienza” dei milioni di soldati tedeschi i quali, pur torturando e sterminando, continuarono per tutta la durata della guerra a pensarsi bravi cittadini e buoni cattolici.
Di fatto, come osserva Carlo Falconi, «La filigrana delle allusioni pontificie era tale che in realtà solo il papa e il suo segretario di Stato vi riconoscevano quel che nessun altro riusciva a scorgervi» [Falconi: 268].
Forse non si è molto lontani dalla verità se si pensa che le caute parole del papa restarono sempre così caute e ambigue affinché elementi di riflessione radicale non penetrassero nei “santuari della coscienza” dei cattolici tedeschi in armi, in quanto ciò li avrebbe sollecitati a scegliere tra principi cristiani e idee naziste, tra il papa e Hitler, ciò che Pio XII volle sempre evitare per timore di una scissione nel cattolicesimo tedesco e dunque per evitare che l’unità della Chiesa ne fosse anche solo incrinata.
Una persistente apertura di credito nei confronti della Germania nazista. Giovanni Miccoli suggerisce di tener conto anche di altri aspetti per comprendere l’atteggiamento di trattenuta attenzione e di riserbo di Pio XII e dei suoi collaboratori nei confronti della Germania. Nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus pubblicata il 20 ottobre 1939, Pio XII rileva che: «principii errati, fortunatamente, non sempre esercitano intero il loro influsso, principalmente quando le tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i popoli, rimangono ancora profondamente, anche se inconsciamente, radicate nei cuori». Vi è in questo passo, secondo Miccoli, il riflesso di una tenace convinzione o illusione di una «persistente disponibilità di quella Germania a una convivenza civile fra i popoli» radicata nelle tradizioni secolari di una cultura, di valori e modi di essere che costituiscono una «garanzia e una speranza di resipiscenza e di moderazione» [Miccoli: 43].
In un discorso del 2 giugno 1943 Pio XII ribadisce il proprio intento: non accusare nessuno, condannare l’errore ma non l’errante, esortandolo piuttosto al rispetto della verità: «...riteniamo essere Nostra alta e precipua cura di difendere e salvare l’eredità spirituale dei Nostri santi e illuminati Predecessori e di denunziare, con verità ma con amore, gli errori che sono alla radice di tanti mali, affinché gli uomini se ne guardino e ritornino sulla via della salvezza. Il che facendo, come pure rivolgendoci nei Nostri Messaggi al mondo intero, non è né fu mai Nostra intenzione di muovere un atto di accusa, bensì di richiamare gli uomini al sentiero della verità e a salvamento...» [cit. in Falconi: 508 nota n. 25].
Tale persistente apertura di credito risultava poi corroborata da una «componente non irrilevante nelle relazioni dei prelati della Santa Sede con gli uomini del Terzo Reich […] Vi è uno stile, una correttezza di tratto, un’aura antica fatta di buone maniere rigorosamente scandite nelle loro forme esteriori, mai assenti in quei rapporti: come l’espressione e la conferma di una civiltà di élite, di solide e lontane radici, che rassicura e gratifica. […] Lo stile aristocratico e alto-borghese della burocrazia ministeriale e dell’ufficialità tedesche sembra creare come un velo, un diaframma che impedisce di guardare sino in fondo nella realtà violenta del regime, che permette di rimuovere, magari solo temporaneamente, i tanti aspetti pur giudicati sgradevoli o inaccettabili» [Miccoli: 44].
Vi è inoltre, continua Miccoli «l’ammirazione per una società in apparenza così compatta e disciplinata, rispettosa dell’autorità, capace di sacrifici […] sottile fascinazione per una società autoritaria e gerarchica che nonostante tutto appare capace di riproporre, magari distorti, virtù e modi di essere che richiamano insegnamenti e modelli della pastorale cristiana corrente» [Miccoli: 44].
9. Gli storici e Pio XII
Jacques Kornberg, in un capitolo intitolato Il dibattito sulle priorità di Pio XII del libro in bibliografia, ha compilato una rassegna delle tesi degli storici che si sono impegnati a spiegare le politiche di Pio XII e del Vaticano rispetto al nazismo e durante la Seconda guerra mondiale, politiche caratterizzate dal rifiuto di condannare pubblicamente gli autori dei massacri e di almeno avvertire gli autori cattolici di atrocità di massa e quelli attivamente o passivamente complici che stavano mettendo in pericolo la loro salvezza.
Tali tesi vengono sinteticamente ordinate da Kornberg in cinque gruppi prima di proporre la sua interpretazione.
Una prima tesi, integralmente assolutoria, è che il papa perseguì e raggiunse tutti gli obiettivi religiosi e morali propri della Chiesa Cattolica Romana: agì con cautela e prudenza per salvare le vittime, compresi gli Ebrei, e riuscì a salvarne molte centinaia di migliaia, ponendo allo stesso tempo la Chiesa all’avanguardia della resistenza contro il nazismo. Una seconda tesi è che Pio XII sacrificò alcuni obiettivi in base alle sue priorità, una delle quali consisteva nel considerare la Germania nazista come baluardo contro il comunismo, il nemico più pericoloso della Chiesa, il che significava appunto evitare di condannare le politiche criminali della Germania. Una terza tesi sostiene che il papa rimase pubblicamente imparziale in modo da fungere da mediatore diplomatico nel conflitto. Una quarta mette in evidenza il timore del papa che la sua condanna pubblica delle atrocità tedesche avrebbe portato a ritorsioni contro le vittime, compresi gli Ebrei. Infine, ed è la quinta tesi, il papa aveva come obbiettivo prioritario la protezione della Chiesa come istituzione e come realtà organizzata. In concreto, alcuni storici hanno sostenuto più di una di queste tesi contemporaneamente.
David I. Kertzer introduce una prospettiva diacronica, perché vede l’atteggiamento del papa modificarsi secondo l’andamento della guerra. In una prima fase, che corrisponde alla travolgente avanzata delle armate naziste in Europa, Pio XII è convinto che la guerra sarà vinta dalla Germania e che l’Europa sarà dominata dai Tedeschi (la convinzione di Pio XII è attestata da monsignor Tardini che nel suo diario del 15 maggio 1940 scrive: «Sua Santità crede che i Tedeschi vinceranno, perché hanno una superiorità aerea e meccanica» [cit. in Kertzer: 586 nota n. 10]); in questo contesto la sopravvivenza della Chiesa cattolica romana come istituzione dipende dalla buona volontà dei Tedeschi che non è possibile contrastare e con la quale bisogna venire a patti. Questa esigenza comportava anche avere come alleato e protettore Mussolini, al quale veniva accreditata un’influenza moderatrice nei confronti di Hitler.
Nel tardo 1942 l’avanzata tedesca viene bloccata e le armate di Hitler iniziano a perdere terreno, mentre la vittoria dell’Asse si allontana. In questa nuova fase al timore del dominio nazista si sostituisce nel Vaticano il timore che una vittoria dell’Unione Sovietica estenda il controllo comunista all’Europa. Monsignor Tardini in una nota per il governo britannico scriveva: «se la guerra odierna eliminerà tutt’e due i pericoli nazismo e comunismo sarà possibile che l’Europa trovi la pace nell’unione e nella collaborazione di tutti i paesi: ma se dovesse sopravvivere il comunismo (o il nazismo) sarebbe impossibile una pacifica ed ordinata convivenza delle nazioni europee e si andrebbe incontro in un futuro non remoto ad una nuova e più tragica guerra». [ADSS, vol. 7, p. 379]
L’occupazione dell’Italia centro-settentrionale e di Roma da parte delle truppe tedesche dopo l’annuncio dell’armistizio rinfocola il timore di una reazione nazista e rafforza la convinzione che non bisogna contrastare i Tedeschi criticando apertamente il loro operato nei paesi occupati e contro gli Ebrei, ad esempio schierandosi apertamente contro il rastrellamento degli Ebrei romani nell’ottobre 1943 e contro il loro invio ad Auschwitz.
Pio XII ha agito secondo la teologia cattolica del suo tempo. Tornando al libro di Kornberg, questi, dopo aver esposto le più accreditate tesi sul problema del “silenzio di Pio XII”, argomenta che papa Pio XII non ha fatto altro che agire secondo la teologia cattolica del suo tempo, che richiedeva di evitare di condannare i cattolici complici dei crimini dell’Asse, tedeschi in particolare, in modo da non dividerli e non allontanarli dalla Chiesa, e questo per il bene della loro salvezza eterna: dunque, le priorità di Papa Pio XII, in quanto capo spirituale, erano religiose e pastorali.
Tali priorità potevano essere perseguite, in primo luogo, a condizione di mantenere l’ascolto dei 40 milioni di cattolici in Germania (incluse Austria e Cecoslovacchia) [Kornberg: 258; Kertzer: 89], gran parte dei quali non erano certo oppositori di Hitler, essendo anzi piuttosto inclini a far propri molti degli obbiettivi nazisti. Anche se, secondo il papa solo le mani di pochi erano macchiate di sangue, mentre i cattolici in maggioranza erano semplicemente fuorviati o ignoravano ciò che accadeva intorno a loro. Ma proprio per questo, il papa non poteva schierarsi apertamente e pubblicamente contro il governo nazista, forzando i fedeli a scegliere tra il papa e Hitler. Il rischio era quello di alienarsi l’ascolto di una parte consistente dei cattolici, tenuto anche conto della possibilità di una conversione alle chiese protestanti e della minaccia nazista di favorire una spaccatura all’interno della comunità cattolica di lingua tedesca e di creare le condizioni per una Chiesa nazionale tedesca indipendente da Roma.
Dopo che Hitler ebbe invaso la Polonia, l’arcivescovo di Friburgo Conrad Gröber dichiarò che l’invasione era parte di una «guerra che ci era stata imposta»; e il vescovo di Münster Clemens August von Galen scrisse: «La guerra, che sembrava finita nel 1919 con una pace imposta, è scoppiata di recente... I nostri uomini e i nostri giovani sono di nuovo ... chiamati alle armi e a fare la guardia alle nostre frontiere per proteggere la nostra patria e combattere, a rischio della loro vita, con ferma determinazione in sanguinose battaglie, per la pace attraverso la libertà e la giustizia per la nostra nazione» [cit. in Kornberg: 276].
Quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei nazisti, una lettera pastorale congiunta dei vescovi tedeschi inviò un saluto ai soldati che combattevano al fronte: «nell’adempimento dei duri doveri dell’ora ... vi consoli e vi rafforzi la certezza che così facendo non servite semplicemente la patria, ma nello stesso tempo obbedite alla santa volontà di Dio» [cit. in Kornberg: 276-277].
L’abbandono della Chiesa di Roma (una concreta possibilità) avrebbe impedito al papa di rivolgersi a milioni di fedeli, i quali non avrebbero così potuto raggiungere la salvezza eterna, perché conseguibile solo sotto la guida redentrice dei pastori cattolici. A questo modo però, osserva Kornberg, il papa accettava che la fedeltà a Hitler avesse la meglio sull’osservanza dei precetti divini.
Per il papa, che si considerava responsabile della salvezza delle anime, era scelta prioritaria mantenere i peccatori, anche i più grandi malfattori, all’interno della Chiesa, perché attraverso la contrizione, il perdono, la grazia di Dio, possibili solo all’interno della Chiesa, riscatto e redenzione erano sempre conseguibili. Finché il peccatore non era un eretico o un apostata, qualunque cosa facesse, la Chiesa poteva redimerlo, perché possedeva i mezzi per la trasformazione personale attraverso i sacramenti.
«I valori religiosi erano al centro della missione papale. Le conseguenze storiche, ciò che è stato sacrificato, erano chiare: Papa Pio XII guardò dall’altra parte quando i diritti umani venivano calpestati e quando gli Ebrei furono deportati per affrontare orrori senza precedenti, e continuò a guardare dall’altra parte quando i cattolici parteciparono a questi crimini. I due imperativi, religioso e morale, erano inconciliabili» [Kornberg: 264].
Può accadere infatti che coloro i quali hanno responsabilità pubbliche ed esercitano forme di direzione politiche, culturali, religiose di trovino di fronte a scelte alternative che rimandano tutte a fini ultimi e a pretese di assolutezza. Nel caso di Pio XII la scelta religiosa ebbe la meglio su quella morale e politica.
Pio XII aveva spesso rivendicato la funzione di guida a favore di tutta l’umanità: «L’ufficio del Sommo Pontefice, attraverso il corso dei secoli, non ad altro mira se non al servizio della verità: della verità, diciamo, che sia integra e sincera, non offuscata da alcuna nube, né soggetta ad alcuna debolezza, né mai disgiunta dalla carità di Gesù Cristo. In ogni Pontificato, infatti, e specialmente su questo Nostro che è chiamato a spiegare il suo mandato a favore del consorzio umano afflitto da tante discordie e conflitti, predomina come un sacro mandato la parola dell’Apostolo: “fare la verità nella carità”» [discorso di Pio XII al Sacro Collegio subito dopo l’incoronazione, 12 marzo 1939, cit. in Falconi: 19].
Ma tra le priorità che effettivamente Pio XII tenne in considerazione e che nella pratica perseguì, al primo posto si collocava la salvaguardia della Chiesa cattolica, il mantenimento dell’ascolto dei fedeli e la possibilità di coinvolgerli comunque in quelle attività ecclesiali che sole potevano assicurare l’eventuale perdono e dunque la salvezza, dato che nessun peccato esclude definitivamente dalla Chiesa. Per questo, nell’ambito in cui la morale e la politica si intersecano, gli appelli a Pio XII perché impegnasse la sua autorità morale a favore di tutta l’umanità furono vani [Kornberg: 267, 270].
Le politiche papali potevano risultare elastiche e accomodanti nei confronti dei governi, indipendentemente dal tipo di stato e dalla sua ideologia dominante, in base alla regola pragmatica di scegliere il male minore per evitare un male maggiore. Il male più grande era, naturalmente, il danno alla Chiesa e il distacco dei fedeli da questa e dai sacramenti, il male minore appunto il silenzio e una calcolata acquiescenza nei confronti del terrore nazista. E Pio XII in diverse occasioni fece appello a questa regola mettendo in evidenza che un suo pubblico intervento contro Hitler avrebbe prodotto più danni che vantaggi non solo alla Chiesa ma anche ai fedeli e alle vittime del nazismo.
L’adattamento delle regole morali generali alle situazioni concrete, «allentando le dure norme, giudicando in base alla misura del male maggiore o minore, aveva certamente un lato umano, ma poteva anche portare all’acquiescenza a crimini orrendi commessi per conto della nazione. Nella convinzione che i fedeli fossero per la maggior parte deboli e peccatori, Pio XII si impegnò in una calcolata acquiescenza alle atrocità di massa commesse da fedeli cattolici, al fine di offrire loro la prospettiva del perdono e della grazia di Dio. In quale altro modo possiamo comprendere la politica di Pio XII nei confronti dei laici cattolici, il suo rifiuto di sfidarli, di parlare in modo specifico nei casi di indifferenza verso le atrocità di massa, per non parlare della complicità, persino della partecipazione attiva?» [Kornberg: 274].
Conclusioni
A conclusione di questa rassegna di studi sulla situazione dei cattolici nella Polonia occupata dai Tedeschi e sull’atteggiamento di Pio XII e quale possibile sintesi valutativa, seppure solo problematica e interlocutoria, si possono tener presenti le considerazioni di Jonathan Huener: «In ultima analisi, lo storico non può basarsi sulla speculazione, ma solo sull’evidenza e sui risultati. I risultati furono disastrosi, ed è importante sottolineare che nel corso dell’occupazione, qualsiasi miglioramento della situazione della Chiesa non fu il risultato delle proteste o della diplomazia vaticana, ma della convenienza politica, economica e militare negli ultimi mesi della guerra. […]
La misurata affermazione che la posizione “riservata” del Vaticano si è dimostrata inadeguata alla sfida delle politiche del nazismo nei confronti della Chiesa non dovrebbe suggerire che lo storico possa offrire alcuna prescrizione post hoc su quale sarebbe stata una risposta “adeguata”, o sui benefici e i costi di tale risposta. È chiaro che la diplomazia vaticana non ha raggiunto i suoi obiettivi; non è certo, tuttavia, che un approccio diverso avrebbe prodotto risultati migliori. La diplomazia vaticana e le rare e limitate dichiarazioni del papato a favore della Chiesa polacca non potevano competere con la Kirchenpolitik dei nazisti. La storia della Chiesa del Warthegau è tragica sotto molti rispetti e rimane un duro promemoria della fondamentale debolezza di Pio XII e del Vaticano in risposta a un avversario che minacciava il potere, l’integrità e il ministero della Chiesa ed era contemporaneamente impegnato in un ampio e omicida progetto nel Warthegau e nel Governatorato» [Huener: 287].
Note
1. La ricerca di riferimento per i capp. 2-6, quando non indicato altrimenti, è Jonathan Huener, The Polish Catholic Church under German Occupation. The Reichsgau Wartheland, 1939–1945, Indiana University Press, Bloomington 2021. ▲
2. La ricerca di riferimento per questa parte è Stanislav Zámečník, C’était ça, Dachau. 1933-1945, le cherche midi, Paris 2003. ▲
3. Comunità di sacerdoti e fratelli fondata dal sacerdote romano Vincenzo Pallotti, 1795-1850. ▲
Altri articoli sulla Polonia
3. Polonia 1939-1944. Occupazione tedesca, Resistenza polacca e Stato clandestino*
2. La Polonia e i patti nazi-sovietici del 1939
1. Polonia 1918-1939. La rinascita della Polonia indipendente
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